Un anno di presidenza Biden
Circa un anno fa un susseguirsi di eventi hanno segnato la storia degli Stati Uniti facendo uscire il Paese da una delle amministrazioni più controverse, quella di Donald Trump; al suo posto Joe Biden è diventato l’esponente politico più votato (circa 81 milioni di preferenze) nella storia delle elezioni a stelle e strisce. In una Washington blindata in seguito agli attacchi di Capitol Hill del gennaio 2021, Biden è diventato anche il presidente più anziano mai eletto.
Nel suo discorso di insediamento il neopresidente aveva preannunciato quelli che sarebbero stati i punti cardine della sua agenda politica: per affrontare il particolare periodo storico fatto di vecchie crisi mai del tutto risolte e nuove sfide, il Paese, secondo Biden, avrebbe dovuto ricomporsi e “seguire la via dell’unità”. Quattro le grandi battaglie che individuava all’alba del suo mandato: la pandemia da Covid-19, la questione razziale, il rilancio economico e la crisi climatica.
I primi 100 giorni di Biden
Le aspettative nei confronti dell’ex vice di Barack Obama erano altissime e ad un anno di distanza, con le elezioni di midterm alle porte, si può già fare un bilancio iniziale del suo operato.
Secondo il sito di statistiche Real Clear Politics, che tramite un lavoro di sondaggi è in grado di valutare la credibilità delle amministrazioni in carica, in questo momento l’indice di gradimento del presidente democratico sarebbe al 40%. Ciò che è emerso a più riprese e riportato da diverse testate giornalistiche è il malcontento degli americani: sul fronte Covid, c’è chi sostiene che le istituzioni non stiano facendo abbastanza per fronteggiare la pandemia; inoltre la maggior parte della popolazione non è convinta delle politiche messe in campo per contrastare l’inflazione e il conseguente aumento dei prezzi di beni e servizi.
Numeri che vedono Biden perdere quel “vantaggio” accumulato nei primissimi mesi di presidenza. Per quando riguarda la crisi da Covid19, a fine aprile 2021, gli Stati Uniti potevano contare sul 29% della popolazione vaccinata (circa 230 milioni di dosi somministrate) ed il pacchetto di aiuti economici da 1900 miliardi a sostegno del welfare e alle strutture, approvato con il nome di American Rescue Plan Act, che ha funto da vero e proprio traino per un’economia che iniziava a soffrire per l’inflazione.
Ovviamente molti degli atti approvati avevano come obbiettivo quello di dare un segno di discontinuità con le politiche di Trump, come è accaduto con l’immediato rientro nell’Accordo di Parigi del 2015 sul cambiamento climatico, e le modifiche parziali apportate sulla politica di immigrazione vigente.
Politica interna
Il decorso che ha intrapreso l’amministrazione negli ultimi mesi fa però emergere anche l’altro lato della medaglia: il malcontento verso la classe dirigente è contrassegnato dall’andamento della politica interna, piuttosto altalenante, che vede i numerosi pacchetti di riforme fermi al Congresso.
Sul lato della pandemia, soltanto il 75% degli americani adulti risulta vaccinata, questo dato però va affiancato alla presenza delle nuove varianti e alla radicalizzazione ideologica di una frangia della popolazione che vuole a tutti i costi sottrarsi alle varie norme ed obblighi vigenti.
La polarizzazione degli ultimi anni all’interno del tessuto sociale americano ha fatto emergere chiaramente come molto ci sia ancora da fare sia sul lato immigrazione che su quello della giustizia sociale e dell’ordine pubblico.
Le riforme sull’immigrazione avviate da Biden hanno alimentato numerose controversie, sebbene inizialmente fossero stati eliminati i Muslim Ban imposti da Trump e alleggerito alcune delle procedure per la richiesta di cittadinanza.
Ad affiancare tutto ciò c’è la preponderante ed effettiva percezione che la comunità afroamericana non sia abbastanza tutelata. Ne è una dimostrazione il fatto che i senatori repubblicani abbiano bloccano il provvedimento per la difesa del diritto di voto del Freedom to Vote Act e del John Lewis Voting Rights Advancement Act i cui obiettivi sono quelli di difendere e rafforzare il diritto di voto degli afroamericani dopo le strette decise in diversi stati conservatori.
Politica estera: tra Cina, Russia e Afghanistan
Sul piano estero Biden ha tentato di riportare gli Stati Uniti sul sentiero del multilateralismo, prima di tutto saldando il ruolo degli USA all’interno della NATO ponendosi come interlocutore attento nei confronti degli alleati europei. Tuttavia i risultati riportati sono stati piuttosto altalenanti: ne è un esempio la momentanea crisi diplomatica con la Francia in seguito alla nascita della nuova partnership “Aukus” con Australia e Regno Unito nell’Indopacifico.
Sebbene i toni siano meno accesi di quelli che contraddistinguono i rapporti con la Russia, le relazioni bilaterali con la Cina di Xi Jin Ping restano alquanto divergenti soprattutto su alcune tematiche come quelle economiche, climatiche e dei diritti umani con un focus sulla situazione di Taiwan.
Altrettanto non si può dire dei rapporti con la Russia di Putin, i quali sono destinati a deteriorarsi ulteriormente soprattutto in seguito all’escalation militare in Ucraina. L’acuirsi delle tensioni nella regione potrebbe potenzialmente rappresentare l’ennesimo fallimento in politica estera da parte di Biden, pari a quello dell’abbandono delle truppe statunitensi dall’Afghanistan e forse anche peggiore.
Le modalità con le quali si è posta fine alla guerra più lunga, circa 20 anni, con il ritiro frettoloso da Kabul ha posto sotto la lente di ingrandimento il fallimentare tentativo della super potenza di esportare la democrazia. La presa immediata da parte dei talebani della capitale sta accentuando la crisi umanitaria che gli americani lasciano dietro di sé. Un addio che ha fatto vacillare la fiducia nella competenza e dell’esperienza Biden e che oggigiorno portano la sua popolarità ai minimi storici e portano a guardare con accresciuta preoccupazione a Kiev.