Tra protezione e repulsione: l’evoluzione del “disgusto“
Quante volte ci sarà capitato di arricciare il naso di fronte a qualcosa di particolarmente poco appetibile. Un cibo andato a male, ad esempio, ma anche un odore sgradevole. Un insetto, un cadavere, un sacchetto della spazzatura lasciato al sole per giorni, qualcuno che mangia con le mani sporche. Paul Ekman, psicologo statunitense che ha fatto dello studio delle emozioni la sua carriera, riprendendo gli studi di Darwin, descrive il disgusto come una delle sei emozioni primarie, espresse da individui provenienti da qualsiasi cultura e accompagnate da espressioni facciali inequivocabili. Gioia, tristezza, sorpresa, rabbia, paura e, appunto, disgusto.
Da cosa nasce la repulsione?
Diversi studi cross-culturali hanno dimostrato che ci sono delle somiglianze tra i vari fattori che, di cultura in cultura, scatenano la sensazione di disgusto. Escrezioni corporali e parti del corpo mutilate, cibi andati a male e particolari specie di animali, come i vermi o gli insetti appunto, occupano i tre gradini del podio in questa classifica “rivoltante”.
La ragione dietro a questa concordanza di idee su cosa sia da considerarsi repulsivo potrebbe essere da ricercare in meccanismi atti alla sopravvivenza, non a caso molteplici sono stati gli studiosi che hanno approcciato la questione del disgusto in un’ottica evoluzionistica. A partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso, fino ad arrivare ai giorni nostri, infatti, si sono succedute varie teorie che hanno ipotizzato che il disgusto sia da considerarsi come il risultato di un sistema adattivo evolutosi per evitare l’ingresso di organismi potenzialmente dannosi per l’individuo. Non è un caso, quindi, che la sensazione di disgusto sia accompagnata da nausea, repulsione e stimolo a ritirarsi: si tratta, infatti, di comportamenti che allontanano quella che viene percepita come una potenziale minaccia.
Questa ipotesi evoluzionistica sulla natura del disgusto sembra anche essere corroborata dai risultati di ricerche che hanno utilizzato tecniche di imaging cerebrale, come la risonanza magnetica funzionale, per capire quali fossero le basi di questa emozione. Sembra, infatti, che siano proprio alcune delle regioni più antiche del cervello, come l’insula e la corteccia cingolata, le principali responsabili per l’elicitazione della sensazione di disgusto e che, quindi, questo meccanismo possa essere uno dei primi evolutisi per garantire la sopravvivenza della specie.
Oltre la sfera fisica: amoralità e repulsione
“Storcere il naso” non è un’espressione che si usa solo in riferimento, ad esempio, ad un cibo andato a male. Comportamenti socialmente inaccettabili, come essere scorretti con l’altro o barare in un gioco, ci fanno “storcere il naso”, oppure ci “lasciano con l’amaro in bocca”. Non è un caso che queste espressioni facciano riferimento direttamente alle reazioni di disgusto che normalmente sono associate ai fattori elencati precedentemente: il disgusto sembra, infatti, estendersi ben oltre la sfera fisica, fino a toccare l’ambito della moralità e del comportamento eticamente – e socialmente – accettabile.
Diversi studi hanno ipotizzato che la repulsione rispetto ai comportamenti etichettati come “amorali” potrebbe appoggiarsi, almeno parzialmente, sui medesimi processi cerebrali che sottostanno al disgusto fisico, come l’attivazione dell’insula e dei circuiti ad essa collegati, ad esempio. Questo ha portato alcuni ricercatori a ipotizzare che il disgusto, evolutosi per primo per proteggerci dai parassiti fisici, si sia poi modificato per «servire uno scopo più esteso, [ovvero] quello di [provare] avversione per i parassiti sociali. Se il comportamento eccessivamente egoista, come la crudeltà, l’avidità, il bullismo, lo stupro o l’abuso infantile è accolto con disgusto, allora evitare il perpetratore è una reazione utile, una reazione che può anche servire a punire e ostracizzare il parassita».