Tecnologia e morale: come possiamo stare al passo?
Che quella attuale sia l’età dell’oro dell’umanità è innegabile, ma se da un lato la nostra esistenza è migliorata, dall’altro armi di distruzione di massa e cambiamento climatico mettono a rischio quanto ottenuto finora. Come fare, quindi, ad evitare la catastrofe?
Savulescu e Persson, filosofi e ricercatori universitari, vedono nella tecnologia la soluzione. Secondo i due studiosi il vero problema è che allo sviluppo tecnologico non sia seguito uno sviluppo morale. La nostra moralità si è evoluta per far fronte a problemi di comunità ristrette e, di conseguenza, non è adeguatamente equipaggiata per affrontare quelli di una società globalizzata, dove il singolo non sempre vede direttamente i frutti del proprio impegno. Entrare nel processo evolutivo è la via d’uscita proposta: usare le biotecnologie e mirare verso specifiche zone cerebrali o geni ritenuti coinvolti nei processi morali, così da migliorare il comportamento etico.
L’irriverente proposta di Savulescu e Persson è conosciuta come “moral bioenhancement” e diverse sono le tecniche che potrebbero essere usate a questo scopo, dall’intelligenza artificiale all’uso di ingegneria genetica per rimuovere attivamente quei geni che sembrano associati a comportamenti antisociali.
Accanto alle riserve etiche che interventi del genere naturalmente fanno nascere, Timothy Brown, ricercatore a Washington, ha evidenziato un aspetto poco considerato, ma che risulta essere più rilevante di quanto appaia in un primo momento.
Brown pone l’accento sulle minoranze, in particolare quella afroamericana, e sottolinea come non solo spesso esse siano tacciate di inferiorità morale rispetto agli oppressori, ma anche come comportamenti che Savulescu e Persson vorrebbero eliminare, uno fra tutti la rabbia, siano spesso utilizzati dai più oppressi proprio per criticare il sistema. Il rischio sembra essere, quindi, quello di perpetuare, e perfino inasprire, un’oppressione sistemica che continua da secoli, specialmente in contesti, come quello americano, dove i più deboli devono poter usare tutta la propria voce per farsi sentire.