Referendum: il cambiamento dal basso
Nel corso delle ultime settimane il nostro Paese è stato investito da tre importanti proposte di referendum: quello sull’eutanasia legale, sulla legalizzazione della cannabis e dell’abolizione della caccia. Si tratta di iniziative popolari di grande spessore, su cui occorre riflettere su più fronti al fine di formulare un’analisi quanto più esaustiva possibile. Il nostro Paese – e non solo il nostro – sta attualmente attraversando una fase storica alquanto complessa, in cui all’immobilismo della politica si contrappongono le istanze del Paese reale e il desiderio di cambiamento delle generazioni più giovani che, però, come ben sappiamo, hanno un potere decisionale fortemente ridotto se comparato con le classi d’età più elevate. È il caso del DDL Zan, ad esempio, richiesto a gran voce dalle generazioni più giovani e dai gruppi politici tendenzialmente più progressisti, ma osteggiato da chi è invece ancorato a modelli ormai anacronistici.
Lo strumento del referendum
Prima di procedere con un’analisi più approfondita del ruolo del referendum in Italia e il suo legame con la società civile, è doveroso procedere con un rapido excursus del funzionamento dei referendum nel nostro Paese. Innanzitutto, il referendum è un istituto giuridico contemplato negli artt. 75 e 138 della Costituzione Italiana e rappresenta, insieme al disegno di legge popolare e alla petizione, uno dei principali strumenti di partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica del Paese. I referendum, a differenza delle altre due modalità di partecipazione, sono gli unici a prevedere una chiamata alle urne, sebbene sia necessario passare per un iter tutt’altro che breve e spesso alquanto complesso.
Il nostro ordinamento prevede principalmente due referendum: abrogativo, mirato far decadere una legge o parte di essa, o costituzionale che, com’è facile intuire, si prefigge invece l’obiettivo di modificare un articolo o parte della Costituzione. I referendum di cui si sta tanto discutendo nelle ultime settimane rientrano tra quelli abrogativi, in quanto hanno l’obiettivo di modificare o eliminare in toto una o più norme presenti nell’ordinamento giuridico.
Il referendum, chiaramente, non è uno strumento adottato esclusivamente nel nostro Paese e va dunque analizzato in relazione a quello che è il crescente peso politico della società civile anche in ottica globale. I referendum rappresentano ad oggi una vittoria fondamentale per la democrazia, in quanto permette ai cittadini di andare a intervenire direttamente sulla vita politica, economica e sociale del Paese, colmando parzialmente quella frattura che si viene talvolta a creare tra la visione della classe politica e le istanze della società. L’incredibile partecipazione di queste settimane alle diverse proposte dei referendum sia in Italia che negli altri Paesi dimostra quanto, sotto molti punti di vista, se non proprio la democrazia, almeno la sua componente partecipativa stia vivendo una dilatazione nel mondo: dati alla mano, infatti, si evince che mentre nel 1980 solo il 46% della popolazione mondiale, in 54 Paesi, godeva dei benefici della democrazia, ad oggi il 72%, residente in 133 Paesi, fa parte del cosiddetto “mondo democratico”. Sempre da una prospettiva storica, risulta di grande spessore il lavoro svolto da Ovid Boyd, dal quale emerge che le prime forme di democrazia diretta vadano ricercate nella Confederazione Elvetica (l’attuale Svizzera), in cui già dalla sua nascita nel 1291 si formarono assemblee in cui riunirsi periodicamente per discutere le questioni più svariate della società svizzera. Il sistema è dunque andato consolidandosi in particolar modo nell’Europa occidentale, a differenza dell’area orientale in cui invece si sono rivelati strumenti essenziali per determinare i confini territoriali nel Primo Dopoguerra.
Il caso dell’Europa orientale è ancora più emblematico se esaminato alla luce dei regimi comunisti presenti durante lo scorso secolo. Qui, infatti, raramente si svolsero dei referendum e, nei casi in cui ciò avvenne, non mancarono le accuse di brogli in tutti quei casi in cui i risultati fossero contrari al volere dei leader. Ciò che è, tuttavia, realmente interessante è che con la caduta del comunismo ci fu un vero e proprio boom di referendum, che ben misero in luce il desiderio dei membri delle società di questi Paesi di autodeterminarsi, di divenire cittadini e non meri spettatori delle loro comunità.
Nella storia post-bellica del nostro Paese, invece, la stagione dei referendum si aprì – escludendo la scelta tra Monarchia e Repubblica- con quello abrogativo del 1974, indetto con lo scopo di abrogare la legge sul divorzio, che fu ad ogni modo nettamente stroncato dal volere popolare. Gli anni Settanta sono stati, peraltro, una decade cruciale per il nostro Paese, tanto da essere passati alla storia come gli “anni di piombo”: terrorismo, crisi energetica e profondi cambiamenti sociopolitici sono solo alcuni degli eventi che hanno attraversato lo Stivale. In più, in tale contesto appariva già fortemente anacronistico un referendum abrogativo di tale portata, in quanto andava ad inserirsi in una società che con i moti del ’68 era andata incontro a profonde trasformazioni strutturali. La società civile, dunque, ha per certi versi dimostrato di essere avanti rispetto alla politica e questo è un aspetto che è forse ancor più vero nell’attuale contesto sociopolitico.
Il referendum: un’arma efficace o sopravvalutata?
La partecipazione degli ultimi mesi alla raccolte firme è stata senza precedenti, in particolare per quella inerente la legalizzazione della cannabis, che ha raggiunto le 500mila firme in meno di una settimana. Tale partecipazione dimostra quanto profondo sia l’interesse della società verso una maggior liberalizzazione di determinati prodotti, nonché verso un maggior accesso all’autodeterminazione del proprio corpo. A ben guardare, non a caso, secondo alcune ricerche, sembrerebbe che oltre il 90% degli italiani sarebbe favorevole all’eutanasia, e al contempo si stima che l’uso della cannabis e delle droghe leggere sia in netto aumento. Anche il referendum sulla caccia può inserirsi in un quadro di profondi cambiamenti che sta investendo la nostra società, giacché l’attenzione verso il benessere animale è in ascesa, in concomitanza con una crescente adesione ad un’alimentazione vegetale.
In generale, queste importanti iniziative aprono una nuova stagione per i referendum, in seguito a una fase di crisi marcata (come ben dimostrato dal fallimentare referendum abrogativo del 2017 sulle trivelle). Quest’ultimo, in effetti, è emblematico sotto molteplici aspetti, dal momento che venne respinto unicamente a causa del mancato raggiungimento del quorum, ovvero la partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto. Tra i pochi che si recarono alle urne, infatti, fu ben oltre l’80% a schierarsi contro l’utilizzo degli strumenti in questione, a conferma del fatto che a una partecipazione attiva della vita politica si affianca, nella maggior parte dei casi, una maggior consapevolezza del peso che può avere il potere decisionale del singolo cittadino. Anche in tale circostanza, infatti, proprio il quorum rischierebbe in futuro di smorzare l’entusiasmo che al momento è presente attorno alle attuali proposte di referendum. L’Italia, non è un mistero, è un Paese in cui il problema dell’astensione dal voto ha ormai assunto connotazioni endemiche, con conseguenze drammatiche sotto il profilo ora politico, ora socioculturale. Non partecipare attivamente alla vita politica del proprio Paese, anche e soprattutto mediante il voto, non è che una sconfitta per il sistema democratico e per la società stessa, che diviene così vittima degli stessi meccanismi che si tenta di lottare decidendo di non recarsi in urna. In tal senso, è fondamentale ridimensionare l’entusiasmo, e cercare di capire se ad esso si possa presumibilmente auspicare un’altrettanta partecipazione in un eventuale chiamata alle urne.
Tecnologia e referendum
Un altro aspetto su cui vale la pena spendere due parole e che, per certi versi, rappresenta tanto un punto di forza quanto una criticità è la modalità tramite cui è possibile firmare la petizione. L’Italia è un Paese, com’è noto, che dà poco peso alle novità, che investe ancora troppo poco sulla ricerca, sull’istruzione e la tecnologia. Nel complesso, si tratta di un Paese costruito ad immagine e somiglianza di una categoria -purtroppo larghissima- di persone che faticano ad accettare il cambiamento che fenomeni quali la globalizzazione e l’internazionalizzazione stanno portando con sé. Ciò va chiaramente ricercato anche nella composizione demografica, dal momento che l’Italia, insieme alla Germania e al Giappone, è tra i Paesi con la popolazione più anziana al mondo. In tale contesto, dunque, l’idea di consentire le firme quasi unicamente tramite SPID (principalmente per abbattere i costi organizzativi dei vari stand) appariva inizialmente una mossa quantomeno azzardata, con il rischio di non raggiungere tutta quella fascia di popolazione sistematicamente esclusa dallo sviluppo tecnologico, vuoi per ragioni economiche o anagrafiche.
Di contro, però, sembrerebbe che lo SPID abbia facilitato la partecipazione dei cittadini, specialmente quelli residenti in aree rurali e distanti dalle grandi città, generalmente più vivaci sotto il profilo politico. A dispetto di ciò, però, bisognerebbe valutare quanti cittadini italiani siano sistematicamente esclusi da un meccanismo simile, in particolare chi non dispone di adeguati strumenti tecnologici o, più semplicemente, per ragioni anagrafiche: secondo le stime dell’ISTAT, è probabile che sul territorio nazionale lo SPID sia utilizzato dal 40% della popolazione maggiorenne. Questo dato è interessante, e non è trascurabile in un contesto in cui disporre di una connessione è ben più di un lusso, ancor di più se si intende rafforzare la raccolta firme digitalmente; tutti i membri della società devono essere messi nelle condizioni di poter prendere parte attivamente alla vita del Paese, ed è pertanto necessario indagare su quali siano le ragioni per cui una porzione consistente di italiani sia ancora sprovvista di SPID. In più, la pandemia ha in tal senso rappresentato un’interessante opportunità per il Paese, che per la prima volta ha dovuto affrontare molti dei limiti tecnologici che lo caratterizzano ormai da anni, e che sono emersi prepotentemente con la didattica a distanza.
Questo sistema, tuttavia, presenta anche, secondo alcuni, diverse criticità: si correrebbe, infatti, il rischio di creare un sistema in cui i referendum vengono passivamente firmati proprio grazie alla loro accessibilità, con effetti negativi per l’intera collettività. È essenziale che i cittadini siano, prima di tutto, consapevoli delle scelte che prendono e delle motivazioni che li spingono verso una specifica direzione, e in tal senso occorre che l’istruzione si faccia carico di questi aspetti, valorizzando e rafforzando l’educazione civica e fornendo agli studenti basi di diritto pubblico. Siamo davvero certi che la grande adesione registrata per il referendum abrogativo sulla cannabis vada ricercata nelle motivazioni che avrebbero un riscontro positivo per l’intera collettività? Quanti dei firmatari sono consapevoli del fatto che, liberalizzando questa pianta, si impedirebbe l’arricchimento delle mafie, e in generale degli effetti negativi del proibizionismo? Sono domande che è necessario porsi se vogliamo davvero andare nella direzione di sistemi più rapidi e digitalizzati, ma che al contempo non sacrifichino un’informazione corretta in grado di formare cittadini consapevoli.
La campagna di ostruzionismo
E se è vero che da un lato vi è una parte del Paese indirizzata verso una maggiore digitalizzazione, è altrettanto vero che le notizie delle ultime ore vanno accolte con una certa dose di preoccupazione. Nella fattispecie, al netto di un sistema rapido ed efficiente quale si è dimostrato lo SPID, l’inadeguatezza dei Comuni nel certificare le firme (atto necessario al fine di provare che la persona firmataria sia iscritta nelle liste elettorali) per il Referendum della cannabis – in scadenza il 30 settembre – desta non poca preoccupazione tra gli organizzatori. Marco Cappato, tra i principali promotori del referendum, ha apertamente parlato di sabotaggio da parte dei Comuni, i quali hanno consegnato solamente un quarto delle firme necessarie, nonostante l’obbligo- sancito dalla legge- di risposta entro 48 ore. Qualora non si dovesse riuscire a trovare una soluzione, dunque, la proposta non verrebbe portata avanti, e ciò unicamente per l’inefficienza (o interesse) di alcuni politici, mettendo in luce come nella sostanza ci si muova con strumenti nuovi e idee progressiste in un contesto ancora obsoleto, in cui la burocrazia è nei fatti farraginosa e distante dalle esigenze della comunità.
Il tutto in un’Europa in cui, solo nella giornata di oggi, si sono celebrati due eventi storici in fatto di referendum: da un lato la Svizzera, in cui sono stati approvati i matrimoni tra persone omosessuali, e dall’altro quello sulla depenalizzazione dell’aborto a San Marino. Qualora non si riuscisse a trovare una soluzione, come la richiesta di proroga della raccolta firme, si tratterebbe di un gravissimo precedente per la democrazia, in cui la volontà cittadina non verrebbe rispettata e in cui, nei fatti, la criminalità organizzata continuerebbe ad arricchirsi incessantemente.
Alla luce di quanto detto fin qui, appare dunque evidente come l’attuale società civile continui a dar prova di essere ben più aperta al cambiamento e all’inclusività rispetto alle istituzioni politiche. Benché vi sia una parte di esperti preoccupata che si possa andare a configurare un contesto in cui i referendum possano snaturarsi, e che possano portare ad una polarizzazione delle idee politiche, sono in molti a ritenere che, al contrario, tali iniziative possano spingere il Parlamento ad agire su tutta una serie di questioni a lungo ignorate, spingendo così a fare buona politica. In generale, rimane il fatto che tali strumenti non paiono allarmare particolarmente i costituzionalisti e gli esperti di diritto, in quanto rimane tutt’ora molto complesso e dispendioso organizzare le raccolte firme.
In genere, dunque, va sottolineato che le campagne delle ultime settimane sono state per certi versi vittime di un entusiasmo quasi eccessivo. Si tratta di passi importanti per la realizzazione di una società più progressista e inclusiva, e che ben dimostrano la crucialità dell’attuale contesto storico, caratterizzato da una generalizzata voglia di cambiamento tra le masse, ormai stanche di vedere un mondo profondamente diverso con le stesse lenti del passato. Maggiori saranno queste iniziative dal basso in futuro, più verrà messa in luce l’inadeguatezza delle attuali classi politiche, incapaci di rispondere alle istanze di una società che si relaziona con il mondo con uno sguardo più fresco e intenzionata a decostruirne le strutture che stanno alla base. Va ancora una volta ribadito che, al netto degli importanti traguardi raggiunti nelle ultime settimane, è essenziale che – specialmente in Italia – non ci si lasci trasportare eccessivamente dall’entusiasmo.
Le tanto allarmanti quanto gravi accuse di sabotaggio delle ultime ore non sono che uno dei tanti scogli che devono riportarci con i piedi per terra, sottolineando quanto i diritti vadano difesi giorno per giorno e che, purtroppo, abbassare la guardia non è mai un’opzione.
A ciò si aggiungono i tassi di partecipazione politica e di astensione elettorale così drammaticamente alti del nostro Paese potrebbero costituire un ostacolo non semplice da superare, con il rischio concreto, una volta alle urne, di non raggiungere alcun quorum e, dunque, arrivare ad un nulla di fatto. L’utilità di quest’ultimo è effettivamente stata dibattuta più volte tra gli esperti di diritto, sebbene la problematica maggiore sembri rimanere alla base: perché molti cittadini sono così demoralizzati da decidere di non intervenire nelle urne? Le decisioni del singolo hanno un impatto collettivo, ed è necessario tener conto del fatto che ogni voto, ancor più che ogni firma, saranno cruciali se si vorrà realmente trasformare e svecchiare l’Italia.