Prigionieri del passato: la difficile scelta elettorale in Perù
Lo scorso 11 aprile si sono tenute in Perù le elezioni presidenziali. Più di 18 candidati si sono contesi la maggioranza dei voti, determinando un grande frazionamento delle preferenze e nessuna maggioranza assoluta: i due partiti maggiormente selezionati sono stati Perù Libre (13%) e Fuerza Popular (11%). Il primo, guidato da Vladimiro Cerrón, propone per la massima carica statale Pedro Castillo; il secondo invece candida Keiko Fujimori, figlia dell’ex presidente Alberto Fujimori e leader del partito stesso.
Come spesso accade nella regione latinoamericana, i protagonisti della scena politica nazionale sono in grande antitesi tra loro, finendo col radicalizzare ancor di più la competizione: Peru Libre è espressione delle forze progressiste del Paese e conta sul supporto di altre forze di sinistra nella regione e lo stesso Castillo si è appoggiato ad esponenti del movimento rivoluzionario Sendero Luminoso che ha insanguinato il Paese dagli anni ‘80 del secolo scorso. Dall’altra parte, il solo cognome Fujimori rievoca in tutto il Paese il decennale governo dell’omonimo presidente (1990-2000), marcato da repressione militare e violazioni di diritti umani che ancora non hanno ottenuto completa giustizia. Entrambi i candidati, sebbene agli antipodi nello schieramento politico, devono fare i conti allo stesso modo col rispettivo passato per ottenere la presidenza. In una regione dove l’ideologia può essere più convincente della memoria, la vittoria rimane incerta.
Lo scontro tra i candidati
Il prossimo 6 giugno, Fujimori e Castillo si affronteranno nella seconda tornata elettorale. Qualora vincesse Fujimori, diverrebbe la prima donna a rivestire l’incarico; con Castillo, invece, tornerebbe in auge la Pink Tide progressista che da un ventennio ha conquistato la politica di molti Paesi della regione.
I due candidati si sono misurati in un primo dibattito politico il primo maggio esponendo i rispettivi punti cardinali per il governo. Castillo ha ristrutturato il proprio programma privandolo degli aspetti più marcatamente leninisti-marxisti (come l’espropriazione delle proprietà private), seppur ribadendo la necessità di una maggiore nazionalizzazione delle risorse e la limitazione dei privilegi economici delle grandi aziende. Punto nevralgico è la proposta di una nuova costituzione: la Carta vigente in Perù risale al 1993 e fu redatta dal governo autoritario di Fujimori-padre; Castillo propone una “Costituzione libera e democratica” che possa prevedere maggiore inclusione delle parti sociali all’interno degli organi di governo.
L’opposizione guidata da Keiko Fujimori denuncia queste proposte come populiste e figlie del medesimo modus operandi che ha portato altri “compagni” della Pink Tide (Chavez in Venezuela, Correa in Ecuador, Morales in Bolivia) a piegare la legge fondatrice dello Stato alle proprie esigenze politiche, trasformando repubbliche in Stati autoritari. Sebbene delle riforme sociali siano necessarie, -afferma l’opposizione- non si può operare senza aver consultato tutte le forze produttive del Paese e soprattutto senza tener conto della difficile situazione economico-sanitaria per via della pandemia.
La paura di molti è che la radicalizzazione delle posizioni, a prescindere dall’esito elettorale, possa scatenare ritorsioni e abusi da ambedue le parti. Nel tentativo di arginare questo problema, entrambi i candidati hanno deciso di sottoscrivere il Proclama Ciudadana, un documento composto da una dozzina di punti volti a garantire, ad esempio, l’accettazione pacifica del risultato elettorale, il rispetto per i diritti umani e dell’ambiente, la rinuncia alla rielezione nel 2026, l’impegno a combattere la pandemia su basi scientifiche e la lotta al narcotraffico. Qualsiasi modifica alla Costituzione, infine, dovrà essere operata legalmente e rispettando gli accordi regionali e internazionali.
Nonostante le rassicurazioni, l’INEI (Instituto Nacional de Estadística e Informática) ha confermato come la maggioranza della popolazione peruviana non abbia alcuna fiducia in quasi nessuna delle 21 istituzioni del Paese. Il solo ufficio “degno di fiducia” (con più del 50% di voti favorevoli) è risultato essere il Registro Nacional de Identificación y Estado Civil, responsabile per l’emissione dei documenti di identità. Secondo un altro studio, inoltre, il 59% della popolazione ha dichiarato di non fidarsi nemmeno degli strumenti d’informazione, ritenendo che condizionino pesantemente la scelta elettorale. La pandemia, con la conseguente crisi economico-sanitaria, non ha fatto altro che acuire questi sentimenti.
Il passato che non passa
L’America Latina dimostra spesso di essere un affascinante laboratorio politico di difficile lettura per chiunque utilizzi la lente delle categorie politiche occidentali. Sebbene il turista possa rimanere affascinato dall’eredità delle culture pre-ispaniche o dall’architettura coloniale barocca, c’è un passato ben più recente che attanaglia ancora gli animi di molti peruviani: Sendero Luminoso. Movimento di estrema sinistra, nacque come una speranza di riscatto politico e sociale per i più poveri a partire dagli anni ‘80, ma terminò col divenire una minaccia terrorista all’interno del Paese, al pari delle FARC in Colombia.
Non fu prima del 1993, nel pieno del governo Fujimori, che lo Stato poté disinnescare la minaccia terroristica. Alcune frange del movimento sopravvivono tuttora e sono ancora in grado di rendersi protagonisti di atti intimidatori e violenti nei confronti della popolazione. D’altro canto, Alberto Fujimori si rese protagonista di azioni altrettanto gravi e degne di condanna: sebbene i suoi successi abbiano riguardato la sconfitta di Sendero Luminoso e la lotta all’inflazione, il suo governo autoritario si macchiò di crimini contro l’umanità quando censurò la stampa e iniziò a perseguitare i dissidenti.
La lotta alla povertà del governo aprì la ferita forse più profonda della storia moderna del Paese: tra il 1996 e il 2000, nel maldestro tentativo di arginare il numero della popolazione vivente in condizioni di disagio economico, Fujimori diede il via ad un piano di sterilizzazione forzata dei ceti meno abbienti con la complicità del personale sanitario. Data la natura segreta dell’operazione, è tuttora difficile ricostruire una cifra verosimile delle vittime: più di 300.000 casi sono già stati identificati ma si teme che il numero complessivo non sarà mai completamente ricostruibile. Il modus operandi prevedeva, nella maggior parte dei casi, che i pazienti (di ambedue i sessi) si recassero in ospedale per controlli o operazioni di ben altra natura, per poi essere sterilizzati in camera operatoria dai medici, senza alcun sospetto. Molte vittime si rendevano conto del danno subito solo dopo molto tempo e spesso dovevano subire lo stigma sociale (specie le donne) di non poter più generare figli.
Al momento Alberto Fujimori si trova nelle carceri peruviane per corruzione e delitti contro l’umanità (25 anni di condanna), ma non è ancora stato possibile giudicarlo per la responsabilità diretta nelle sterilizzazioni forzate. Se è vero che i figli non sono responsabili per le colpe dei propri padri, tuttavia va sottolineato che Keiko ha più volte sostenuto l’estraneità del padre in quella sciagurata politica, affermando addirittura come quella in questione non fosse altro che una misura per migliorare la condizione sociale del Paese. La scelta di non rigettare in toto le azioni del padre hanno suscitato enormi proteste in tutto il Perù, dove sia le vittime sia il resto della cittadinanza hanno chiesto a gran voce, oltre alla verità sulle sterilizzazioni, anche la sconfitta elettorale di Keiko così da poter concludere delle indagini di riciclaggio di denaro che ancora pendono a suo carico e che potrebbero essere messe in stand-by qualora vincesse.
I sostenitori di Keiko, invece, temono il rapporto di Castillo con Sendero Luminoso e la sua grande vicinanza ad altri protagonisti del progressismo populista latinoamericano. Persino il premio Nobel Mario Vargas Llosa si è espresso apertamente a favore di Fujimori (pur essendo un grande critico del governo del padre): secondo lo scrittore, un governo Castillo porterebbe il Paese alla disfatta sia economica che sociale. Seguendo il programma populista già visto altrove, Castillo vorrebbe ricostruire la Costituzione a proprio favore riempiendo le istituzioni peruviane con uomini di fiducia e sotto il falso ombrello dell’“inclusione” o della “partecipazione diretta” da parte dei settori sociali maggiormente esclusi, inaugurando così una nuova esperienza autoritaria (20 anni dopo Fujimori).
Vargas Llosa gode di una reputazione altissima in Perù e la sua esperienza politica lo rende sicuramente una voce autorevole anche a livello internazionale, tuttavia vi è un problema di fondo nel momento politico in esame, generalizzabile a tutta la regione: la maggior parte delle parole spese a favore di qualsiasi candidato sono in realtà espressioni a sfavore delle ragioni altrui e non motivazioni per le quali il tal candidato dovrebbe vincere. La vittoria elettorale sembra essere destinata al “male minore”, ovvero a chi saprà rivelare il maggior numero di punti deboli nell’avversario. Questa tendenza è un aspetto ormai storico nella politica latinoamericana e spesso si è dimostrato l’apripista per esperienze ancora peggiori delle precedenti: un governo che nasce da un sostegno “vuoto” degli elettori nasce già orfano e sarà presto sostenuto solo dalle frange più radicali del partito; una volta venuta meno la maggioranza nelle strade, il governo ricorrerà alle forze dell’ordine per ristabilire la propria legittimità al comando. L’esito di questo scontro ha determinato la fine di molti governi della regione, così come la nascita di molti autoritarismi. La logica elettorale dello “scegliere il male minore” sembra essere dunque una delle maggiori cause dell’instabilità politica della regione; d’altra parte, la politica populista permette ancora a tanti candidati “improbabili” (come Keiko e Castillo) di raccogliere consensi, sebbene siano spesso “vuoti”.
L’attesa dei risultati in Perù
Gli ultimi sondaggi vedono Castillo in leggero vantaggio rispetto a Fujimori, sebbene accanto ad un gran numero di votanti ancora indecisi. Osservando i soli dati certi, una vittoria progressista è al momento la più probabile qualora Keiko non riesca a vincere il voto di tutti coloro che ancora non hanno deciso. Anche qualora vincesse la candidata di Fuerza Popular, il silenzio stampa e l’attesa del conteggio definitivo e ufficiale dei voti potrebbero essere le scelte più sagge per un Paese estremamente polarizzato: non va mai dimenticato che il partito vincitore è chiamato a governare anche su coloro che non lo hanno votato. Sarebbe dunque oltremodo dannoso per il Paese se uno dei due schieramenti finisse col rifiutare di concedere la vittoria all’avversario, appellandosi magari ai proprio sostenitori “para defender el pueblo”, perché potrebbe scatenare tutte quelle forze finora rimaste a bada, rischiando ulteriori scontri e disordini interni.
Post Scriptum
«Ben poco questo mondo [americano] va secondo le nostre (europee) previsioni»: così scrive il Cardinale Altamirano al Pontefice nel meraviglioso film “The Mission” (1986). Gettato nella mischia della politica imperialista europea nelle Americhe iberiche di fine Settecento, l’emissario pontificio Altamirano si rende conto che la vita in quelle regioni del mondo è ben lontana da qualsiasi descrizione riportata in Europa e che qualsiasi tentativo di catalogazione e organizzazione europea è destinata ad essere frustrata dalle diverse caratteristiche dei due mondi. Il film contiene un messaggio di rinascita anche dopo la crudeltà e l’inganno da parte del prossimo e la frase sopracitata riassume perfettamente più di mezzo secolo di storia e politica latinoamericana. Se la si guarda da un altro punto di vista, come suggerisce implicitamente il film, essa racchiude una grande carica di ottimismo per il futuro. Oggi per il Perù, domani per il continente.