Paralimpiadi: rappresentazione e necessità di cambiamento
Si sono ormai da poco conclusi i Giochi Paralimpici Tokyo 2020, che hanno regalato – anche in questa edizione – molteplici soddisfazioni agli atleti italiani, che hanno complessivamente portato a casa 69 medaglie. Tuttavia, vale la pena riflettere sull’importanza di portare sullo schermo corpi non conformi agli standard a cui uno sguardo, tendenzialmente e spesso inconsciamente abilista, è abituato. A ciò si aggiunge che, dato il carattere intrinsecamente internazionale dell’evento sportivo, il messaggio può essere veicolato su scala globale. Del resto, abbiamo già visto le scorse settimane quanto lo sport si intersechi fortemente ora con la storia, ora con la politica, ora con la salute mentale.
La storia e il presente delle Paralimpiadi
Meritevole di attenzione è senz’altro la storia delle Paralimpiadi, la quale appare sin da subito ben più breve rispetto a quelle considerate “tradizionali.” Infatti, mentre i Giochi Olimpici affondano le loro radici nella Grecia del 776 a.C., quelli Paralimpici vennero ideati per la prima volta solamente nel 1948, grazie all’importante lavoro svolto dal neurochirurgo tedesco Ludwig Guttmann. Egli, infatti, in concomitanza con i Giochi Olimpici londinesi, inaugurò i cosiddetti Giochi di Stoke Mandeville, dedicati esclusivamente alle persone disabili. Tuttavia, è solo con Roma 1960 che i Giochi Paralimpici vedono ufficialmente il loro debutto: tra le varie discipline, in questa sede, figurano il nuoto, il biliardo, il giavellotto, la scherma e così via.
Da allora, ad esclusione di alcune brevi parentesi, il Movimento Paralimpico è cresciuto a dismisura, con il numero degli atleti che è passato dai 400 di Roma 1960 ai 4403 di Tokyo 2020. Ciò rappresenta un primo punto per dimostrare l’impatto che eventi di tale portata possono avere tanto sul pubblico quanto sugli aspiranti atleti disabili. Le Paralimpiadi divengono così uno spazio importante che i cosiddetti “corpi non conformi” possono prendersi con la forza, ridefinendo e contrattando quello che è il loro spazio in una società che, purtroppo, continua a non desiderarli. Lontano dalle competizioni agonistiche, infatti, per le persone disabili non impegnate in una carriera sportiva, le barriere architettoniche e, spesso, il pietismo da parte di chi invece è abile, continuano ad essere una costante delle loro esistenze.
Media, televisione e società
Andando con ordine, è anzitutto essenziale un primo focus sui possibili impatti positivi delle Paralimpiadi che, per quanto vadano senz’altro al di là dei meri dati numerici, richiedono comunque un’analisi di tipo quantitativo. Un primo aspetto che va sottolineato, infatti, è il ruolo della rappresentazione sui media, spesso ingiustamente al centro della presunta “dittatura del politically correct”. Dati alla mano, è evidente quanto i media non siano ancora sufficientemente inclusivi come spesso si vuol far credere, dacché la categoria più privilegiata, quella dell’uomo bianco, continua a ricoprire un’ importanza pivotale nei ruoli di maggior peso decisionale. Nella fattispecie, la situazione delle persone disabili è ancora tutt’altro che rosea, come evidenziato dal report annuale del Gay & Lesbian Alliance Against Defamation (GLAAD) Media Institute (organizzazione no-profit finalizzata al raggiungimento di una corretta rappresentazione delle minoranze e delle persone LGBTQIA+), in cui emerge che solo il 3,5 % dei personaggi presenti nelle serie andate in onda tra il 2020 e il 2021 appartengono alla suddetta categoria. Conseguentemente, occorre rimarcare quanto sia cruciale che i media diventino sempre più inclusivi, cosicché il maggior numero di spettatori possa rispecchiarsi nelle vicende dei vari show televisivi. Gli studi sociologici, come quello di Henry Jenkins, pongono grande enfasi sul ruolo attivo dello spettatore, al quale solamente negli ultimi anni si comincia a riconoscere la capacità di intervenire sui processi comunicativi e rappresentativi dei media. Ognuno di noi ha esigenza di rispecchiarsi, in qualche modo, con ciò che “consuma” e con i soggetti o gli spazi con cui interagisce, suggerendo dunque la non neutralità tanto delle azioni singole quanto di quelle collettive. Nel complesso, dunque, appare chiaro che riportare su schermo in mondovisione una celebrazione dei corpi disabili possa avere un impatto notevole sugli spettatori, ma è fondamentale che sia un processo continuo, e non relegato unicamente ai maggiori eventi sportivi.
Inoltre, le Paralimpiadi possono costituire un’importante occasione per riflettere su una moltitudine di aspetti che solitamente sfuggono a una parte di popolazione che non fatica a muoversi nei diversi spazi urbani. In queste circostanze lo spettatore può dialogare con sé stesso, ma anche con un soggetto considerato “diverso”, così la televisione diviene un intermediario tra due universi costantemente separati. Storicamente la disabilità è stata associata alla debolezza, all’incapacità psicofisica e di autodeterminazione degli individui, tanto da escludere sistematicamente gli appartenenti alla categoria dalla società attiva. Sin dai tempi d’oro di Sparta, del resto, era comune per le famiglie sbarazzarsi di tutti i figli non-abili, in quanto non facevano altro che mettere in dubbio la presunta “forza” della società spartana. Tali barbarie hanno continuato -e probabilmente continuano ancora oggi- a verificarsi, tanto che più volte si è accostato il termine apartheid alla disabilità, con effetti drammatici per le esistenze di milioni di persone, deumanizzate non solo dalla società, ma anche dalle famiglie di origine. Molteplici ricerche hanno, non a caso, messo in luce un livello della qualità della vita delle persone disabili nettamente inferiore rispetto a chi è invece abile, rendendole dunque molto più inclini a sviluppare disturbi mentali o fisici.
Riprendendo il tema centrale del discorso, appare chiaro quanto mostrare, tanto sullo schermo quanto nella vita di tutti i giorni, minoranze si configuri come un atto tutt’altro che neutrale, rafforzando l’idea che ogni corpo sia politico. Ciò è evidente non solo nel caso della disabilità, ma anche del movimento della Body Positivity, anch’esso intenzionato a farsi carico di messaggi, riappropriazioni e rivoluzioni in una società che reclama il controllo etico e pratico di ogni corpo. Per tale ragione, anche il fondamentale lavoro svolto sin dal 1948 con Ludwig Guttman, portato avanti dal Movimento Paralimpico nei decenni a seguire, ha rivestito un ruolo sul piano sociopolitico che non si può ignorare. Appare del tutto impossibile separare la sfera politica da quella sportiva, specialmente quando agisce da cassa di risonanza come nel caso delle Paralimpiadi.
Paralimpiadi: tra futuro e criticità
Le Paralimpiadi, oltre ad avere un impatto positivo in termini di rappresentazione (seppur, come già visto, non così marcatamente come si pensi), hanno tra le altre cose l’importante funzione di portare a una rivalutazione degli spazi in cui ci si muove, nonché di mettere in discussione quello che di fatto è il privilegio di non doversi scontrare quotidianamente con le barriere architettoniche dei centri urbani. Nel caso del Giappone, ad esempio, ospitare i Giochi Olimpici si è tradotto in massicci investimenti in infrastrutture accessibili alle persone con mobilità ridotta: è il caso dell’aeroporto di Haneda, ad oggi classificato come il migliore al mondo sotto questo profilo.
Proprio il Giappone rientra attualmente tra i Paesi più inclusivi in termini di mobilità ed è indubbio che ospitare i Giochi Paralimpici abbia spinto ulteriormente verso questa direzione, dando uno slancio non indifferente al ridisegnamento delle città giapponesi. Una buona città deve, per definizione, essere visitabile e percorribile da qualsiasi individuo, a prescindere dalla propria condizione psicofisica; pertanto, è innegabile che utilizzando tale parametro il numero di città considerate buone si riduca drasticamente. Parte del problema, almeno in Europa e in Italia, è certamente dovuto al fatto che un numero non trascurabile di città ha alle spalle una storia millenaria (Tokyo ha avuto uno sviluppo molto diverso), e la cui costruzione è antecedente a qualsiasi consapevolezza circa i diritti umani. Nella maggior parte dei casi è tuttavia la volontà a mancare: è il caso di Venezia, ad esempio, i cui canali sono inaccessibili a qualsiasi carrozzina, privando così milioni di turisti delle bellezze di una delle città più suggestive e uniche al mondo. I cittadini abili tendono a non prestare attenzione alla carenza di ascensori o pedane, ma è evidente che si tratti di una problematica non indifferente e di cui è necessario prendere consapevolezza mentre si assiste ai successi degli atleti paralimpici. Il recente episodio di Sofia Righetti (attivista e campionessa paralimpica di scii alpino) con il Giardino dei Tarocchi mette indubbiamente in mostra quanto l’abilismo sia fortemente radicato su ogni piano, sottolineando quanto gli appartenenti alla categoria delle persone disabili siano “diversi”. Inoltre, la stessa Righetti ha ricordato più volte quanto le Paralimpiadi non siano affatto competizioni di serie B, ma che hanno invece la medesima dignità delle Olimpiadi, a dispetto di chi afferma che, invece, sarebbero “una esaltazione delle disgrazie”.
Per riprendere le parole della nota attivista e sportiva, merita una menzione anche il diverso trattamento mediatico che è stato riservato ai due eventi. Infatti, mentre le Olimpiadi sono state trasmesse integralmente unicamente dal servizio streaming Discovery+, le Paralimpiadi sono state visibili in chiaro esclusivamente sui canali Rai. Benché appaia a prima vista lodevole quanto compiuto dal servizio pubblico, la ragione di tale scelta nasconde una nota che va in contrapposizione con lo spirito stesso delle Paralimpiadi e che ancora una volta mette in luce l’abilismo della nostra società. La motivazione di tale manovra è da ricercarsi non solo nei costi inferiori, ma anche nel minor interesse da parte del pubblico rispetto alle Olimpiadi. Emerge dunque che, al netto di un crescente interesse mediatico nei confronti delle Paralimpiadi, il suo incredibile potenziale rischia di essere spezzato da quelle stesse dinamiche che si cerca di contrastare. Inoltre, secondo una ricerca emerge che gli eventi sportivi di grandi dimensioni non comportano automaticamente un aumento nella partecipazione agli sport, dal momento che gli organizzatori non sono in grado di mettere a punto iniziative che favoriscano l’attività sportiva per chiunque abbia una mobilità ridotta.
A ciò si aggiunge il pietismo attorno a chiunque abbia una disabilità, che diviene ancor più marcato in occasione di eventi simili. La narrazione che circonda gli atleti tende spesso ad enfatizzare la fatica “nonostante tutto” e, in generale, le loro biografie più o meno strappalacrime. Anche il linguaggio riveste dunque una funzione cruciale, in quanto narrazioni di questo genere impediscono agli atleti, ma anche a chiunque altro, di essere trattati al medesimo modo di chi invece è abile. La domanda è: perché, anziché esaltare le loro battaglie e le loro sofferenze (che non vengono in alcun modo messe in dubbio), non si agisce per costruire una società che sia a misura anche di queste persone? Fino a quando il Movimento Paralimpico e i giornalisti non agiranno su questi fronti, si rischia che possa rimanere una patina di abilismo. Sofia Righetti esprime chiaramente quella che è una problematica intrinseca della nostra società, e che di conseguenza si ripercuote su ogni suo aspetto:
«Ci sono atleti che combattono ogni giorno contro lo stigma che le Paralimpiadi siano da sfigati, da handicappati, che sia meno faticoso e siano meno gloriose. Perché ti assicuro che la fatica è uguale per tutti. E che al cronometro non importa che tu abbia una lesione o no, o quante gambe abbia, perché non ti fa sconti e non prova pena. E ti devi impegnare, e tanto, anche solo per poter accedere alle gare nazionali. La volontà e il privilegio fisico ed economico sono fondamentali per andare alle Paralimpiadi, non per tornare a camminare. Le Paralimpiadi non sono da falliti»
Sofia Righetti
In conclusione, non si può non fare un plauso tanto al Movimento Paralimpico per il suo indubbio sforzo e per la crescente visibilità dei corpi considerati “non conformi” che esso promuove. Ciononostante, la realtà è composta da diverse sfaccettature, pertanto, ciò che vediamo è intrinsecamente complesso. Le Paralimpiadi devono fungere da dialogo tra persone abili e disabili, fornendo un’occasione di riflessione su determinate dinamiche a chi è abile. Per quanto lodevole nelle intenzioni, non è sufficiente che gli organizzatori delle Paralimpiadi mettano semplicemente in piedi un evento, ma occorre che si facciano promotori di un cambiamento più massiccio e profondo, in grado di superare il pietismo e di andare oltre le competizioni sportive. Le persone disabili non sono eroi da compatire per le loro azioni, ma persone che si scontrano ogni giorno con i muri che noi, abili e abilisti, abbiamo costruito nel corso della storia. Le Paralimpiadi devono così ricordarci che siamo noi a non star facendo abbastanza e che dobbiamo per tale ragione osservare le nostre città con uno sguardo diverso, nonché rimodellare il nostro linguaggio affinché veda l’altro come un essere umano a tutto tondo. Del resto, mancano ancora tutele sul piano legale di grande rilevanza, come il DDL Zan in Italia, che si impegna a salvaguardare non solo i diritti della comunità LGBTQIA+, ma anche delle persone disabili.
L’augurio è che le cose possano cambiare anche per chi, nel corso della storia, è stato incessantemente dimenticato.