L’ombra della cittadinanza europea
Nel mezzo delle sempreverdi discussioni sulla riforma del diritto di cittadinanza in Italia, parlare di cittadinanza europea potrebbe risultare fuori luogo e quasi avveniristico, eppure questo status esiste da quasi trent’anni e appartiene a tutti in quanto cittadini di uno Stato membro dell’Unione europea. Secondo i dati dell’Eurobarometro 2020, l’Italia è il Paese europeo con il minor grado di “appartenenza” al continente: solo il 48% degli italiani si percepisce anche cittadino europeo contro una media UE del 70%. Definirsi cittadini europei, tuttavia, non significa solamente esprimere un sentimento di attaccamento nei confronti di un’istituzione di cui raramente si percepisce la vicinanza, ma, soprattutto, comprendere le possibilità e i vantaggi resi accessibili da quel patrimonio di diritti che lo status di cittadinanza implica.
Quando è “nata” la cittadinanza europea?
La cittadinanza europea viene istituita ufficialmente con il Trattato di Maastricht del 1992. L’articolo 8 recita: «È cittadino dell’Unione europea chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro». Tuttavia, si tratta di uno status giuridico particolare la cui singolarità è precisata dal successivo Trattato di Amsterdam del 1997. In quest’ultimo, si sottolinea il carattere duale della cittadinanza europea, che funge solamente da completamento di quella nazionale. L’origine della cittadinanza europea risiede infatti in uno status giuridico antecedente, ossia quello attribuito da uno degli Stati membri, e per tale ragione si può solo “sommare” senza apparentemente aggiungere nulla di significativo a quest’ultimo. Da ciò deriva in parte la diffusa ignoranza circa le sue effettive implicazioni nella vita di ogni cittadino europeo.
Cittadinanza come “contenitore di diritti”
Allontanandoci dal pensiero comune, è possibile notare come ad oggi la cittadinanza europea non offra solo il riconoscimento della celebre libertà di movimento tra Stati membri, bensì un ventaglio di diritti più ampio. Se, come afferma Hannah Arendt, la cittadinanza è innanzitutto “il diritto ad avere diritti”, accedervi significa in primo luogo vedersi riconosciuti e tutelati una serie più o meno numerosa di diritti. Questo elenco varia in ampiezza a seconda del “prestigio” della cittadinanza, o meglio, dello “stato di salute” della democrazia del Paese che la concede. Secondo questa logica, la cittadinanza europea dovrebbe quindi assicurare la protezione di un insieme di diritti, garanzie che nell’UE hanno tuttavia trovato un lento e graduale riconoscimento.
Il concetto di cittadinanza europea è stato infatti ancorato per molto tempo unicamente a diritti di natura economica, rispecchiando di fatto il carattere funzionalista dell’Unione europea dei Trattati istitutivi. La libertà di movimento dei fattori produttivi come il “soggetto-lavoratore” e il divieto di discriminazione in base alla nazionalità sono conseguenze implicite della liberalizzazione del mercato del lavoro europeo, ma perdurano in forma di diritti legati esclusivamente alla figura del lavoratore-migrante. Solo nel 1992 la lista dei diritti viene aggiornata e con essa anche la platea di soggetti che possono accedervi. Ai diritti economici si affiancano ora nuovi diritti politici quali: la facoltà di votare e candidarsi alle elezioni amministrative nello Stato membro in cui si risiede, ma di cui non si deve necessariamente avere la cittadinanza nazionale; la tutela consolare di un altro Stato membro in un Paese extraeuropeo dove non sia presente una sede diplomatica del proprio Paese; la possibilità di presentare una petizione al Parlamento europeo, di rivolgersi al Mediatore europeo e di partecipare a un’iniziativa popolare europea.
Rimangono tuttavia in sospeso tutti i diritti di base, i cosiddetti diritti fondamentali riconosciuti a livello nazionale e internazionale, ma non ancora a livello dell’UE. Questa lacuna è stata formalmente colmata nei primi anni duemila dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. È quindi solo da una decina d’anni che la cittadinanza europea offre un ampio e aggiornato catalogo di diritti, ma anche un ulteriore livello di protezione dalle violazioni di quest’ultimi.
Eppure, l’abbondanza di diritti non sembra aver avvalorato la cittadinanza europea, uno status che rimane tutt’ora vincolato all’elemento della mobilità. Si percepisce il “vantaggio” della cittadinanza europea solo oltre i confini nazionali quando, diversamente dai colleghi extracomunitari, ci si può muovere liberamente nello spazio comunitario ed esercitare il diritto di voto in un altro Stato membro. All’interno del proprio Paese, la cittadinanza europea sembra però ancora intangibile, quasi “un’ombra” che rincorre la cittadinanza nazionale.