L’Europa “assediata” da un nemico che non c’è
Di Pierluigi Faraone e Chiara Ferri
La parola “confine” deriva dal latino confinis, derivato da finis, che si traduce con “limite”. Il limite delinea due spazi confinanti ed è un concetto astratto, utile a delimitare, appunto, territori, se parliamo di Stati. Questo non comporta nulla di negativo, fin quando avviene la concretizzazione del concetto di confine attraverso la realizzazione di muri che non delimitano, ma separano. In questo modo, la parola confine rientra in un campo semantico specifico: il campo della paura dell’“altro”.
Chiaro è che la paura dell’altro, di colui che è al di là del confine (la cosiddetta xenofobia), abbia a che fare con una serie di meccanismi che introiettiamo consciamente e inconsciamente e che il più della volta giungono ad una questione: quella che gli antropologi chiamano “etnocentrismo”.
L’etnocentrismo riguarda il processo secondo cui il sistema culturale, storico e sociale dell’altro viene giudicato attraverso la propria cultura, storia e società. Prima di fare alcuni esempi, è necessario riportare anche un altro concetto, elaborato da un punto di vista antropologico alla fine dell’800 ma abbandonato nei primi anni del ‘900: l’evoluzionismo unilineare, secondo cui tutte le società passano indistintamente attraverso gli stessi gradi di sviluppo, giungendo inevitabilmente alla conclusione che alcune società si collochino più avanti rispetto ad altre.
Sull’onda di queste considerazioni, dunque, riposerebbe l’idea che il nostro (quello occidentale e in modo più particolare quello europeo) sia un sistema in continua evoluzione, a differenza degli altri sistemi che, al contrario, sarebbero statici, fermi. In questo modo, lo sguardo che poseremo sugli altri sistemi sarà allocronico (“fuori dal tempo”, privo di una collocazione temporale). Sebbene sia un concetto ampiamente superato dall’antropologia, oggi questo assunto di base permane soprattutto nel pensiero occidentale: il nostro è un modello culturale così avanzato da non riuscire a reggere il paragone con i modelli non-occidentali, classificando questi ultimi come sottosviluppati.
Si tratta di un modello di pensiero subdolo, perché dal considerare il diverso come “inferiore”, “primitivo”, “semplice” e “irrazionale” ad innalzare muri per non intaccare le presunte virtù della cultura occidentale, il passo è breve. Un etnologo francese, Marcel Griaule, nel XX secolo, conducendo degli studi presso i Dogon dell’Africa occidentale, ha dimostrato come il pensiero cosmogonico dei Dogon sia complesso ed elaborato tanto quanto il pensiero filosofico occidentale. Questo esempio, preso tra moltissimi altri, dovrebbe servire a stabilire che per evitare la costruzione di barriere, astratte o concrete, è necessario partire da un presupposto: tutte le culture definiscono il mondo secondo le proprie modalità (esempio: il concetto di “parentela” non è lo stesso per tutti) e sarebbe alquanto sterile e infruttuoso giudicarle attraverso le idee di giusto e di sbagliato.
Eppure, ancora oggi resiste, radicato saldamente, un “eurocentrismo” che continua a guardare dal tetto della propria presunta superiorità il resto del mondo. Un retaggio ereditato da un’evoluzione storica che ha visto per centinaia di anni il Vecchio Continente autoproclamarsi fulcro del mondo. Oggi però quello stesso primato inizia a vacillare sotto la spinta di un processo di globalizzazione che sembra inarrestabile e che vede scivolare l’Europa verso un ruolo marginale nelle dinamiche globali ad ogni livello. Di fronte a questa crisi, assistiamo ad un ultimo- si direbbe disperato- tentativo di difendere l’Europa e la sua decadente identità da quelle forze che tentano di minarne i presupposti. Incapace di reagire, il continente si vede come una fortezza presa d’assedio ma senza un vero “invasore” alle sue porte.
Un nemico da trovare a tutti i costi
«Cadeva la sera su una bella e malandata Europa multiculturale». Inizia con questa immagine, purtroppo utopica, un brano di Vasco Brondi. La situazione odierna, infatti, tutto lascia trasparire meno che quella di un’Europa senza barriere.
Le frontiere sembrano divenute indispensabili; vitali strumenti con lo scopo di dividere, separare, impedire il contatto, cancellare ed annullare identità e diritti. I confini sono diventati il punto di massimo esercizio del potere degli Stati e come tali devono essere difesi, sorvegliati e dunque militarizzati.
Oggi si fa la “guerra” ai migranti che varcano i confini europei per difendere le frontiere del Vecchio Continente e per garantire la sopravvivenza di un sistema (quello dello Stato moderno) che predica omogeneità all’interno dei confini statali e non può tollerare “contaminazioni”. I migranti, dunque, non sarebbero altro che un fattore destabilizzante per gli Stati europei. Gli armamenti di cui dispone oggi l’Unione europea e i muri che i vari Stati hanno costruito, hanno trasformato il continente in una sorta di “città- fortezza” in cui regnano egoismo e diseguaglianze. Società, finanziatori privati, multinazionali, ecc con i loro servizi e le loro risorse contribuiscono ad incentivare tutte quelle misure securitarie che vengono attuate in Europa, e non solo, per arginare le migrazioni. Abbiamo così un vero e proprio mercato della sicurezza immune però da crisi economiche.
“Cavie” delle varie sperimentazioni tecnologico- militari sono proprio i migranti. Le politiche securitarie vedono nelle nuove tecnologie uno dei principali alleati nell’arginare gli arrivi nel Vecchio Continente e per questo si vanno affinando sempre più le tecniche di controllo intelligenti per monitorare, tramite sistemi di controllo sempre più all’avanguardia, passaggi ed ingressi. Spesso però controllo ed esternalizzazione delle frontiere viaggiano di pari passo con le violazioni dei diritti umani; per questo si parla sempre più di “costi umani della militarizzazione dei confini”.
La crisi umanitaria dei migranti, accentuatasi nel 2015, ha scoperto le debolezze del progetto europeo date dalla mancanza di trovare una linea congiunta e comune di policies in materia che non minino i diritti fondamentali universali. Sono i migranti quelli che pagano il conto, restando intrappolati tra muri e confini di cui oggi l’UE si è circondata.
Parlando di migrazioni, uno dei termini più ricorrenti è la parola “sicurezza”, la quale induce a vedere nella militarizzazione dei confini l’unico modo per sentirsi al sicuro e per difendere un sistema identitario superato. Nel report Building Walls, Ruiz Benedicto scrive di come, ad oggi, nell’area Schengen, siamo arrivati ad avere quasi mille km di muri e barriere, il tutto però senza alcun nemico alle porte.