Le terapie di conversione esistono ancora?
Come ogni anno, nel mese di giugno si festeggia in tutto il mondo il Pride Month, ovvero il mese dell’orgoglio LGBTQI+ ; mese scelto per commemorare gli avvenimenti accaduti tra il 27 e il 28 giugno del 1969 a New York: una notte durante la quale la polizia fece irruzione nello Stonewall Inn, uno dei cosiddetti “bar gay” del Greenwich Village, e dove quella che sembrava una delle tante retate a discapito della comunità omosessuale, si trasformò in un atto di ribellione da parte degli ingiustamente accusati. Simbolicamente, quindi, i moti di Stonewall sono riconosciuti come l’evento che ha segnato l’avvio delle rivolte delle persone della LGBT community per la difesa dei propri diritti.
A più di cinquant’anni da quella notte, numerose sono state le battaglie portate avanti dalla comunità e altrettanti i diritti rivendicati e conquistati, primo fra tutti la depatologizzazione dell’omosessualità da parte della comunità scientifica nel 1973 grazie all’Associazione americana di psichiatria che l’ha rimossa dagli elenchi delle malattie mentali e alla quale ha fatto eco, nel 1990, anche l’Organizzazione mondiale della sanità. Tuttavia, in diverse parti del mondo, non solo non esistono ancora adeguate leggi che tutelino le persone LGBTQI+ ma addirittura queste vengono quotidianamente criminalizzate e spesso costrette a terapie disumane.
Cos’è la terapia di conversione?
Sebbene si basino su inesistenti basi scientifiche e siano dannose per la salute psichica e fisica di chi le subisce, le “terapie di conversione“, dette anche “terapie riparative” sono adottate ancora in 80 Paesi nel mondo e spesso su adolescenti (secondo i dati Outright Action International 2019). Ideate fin dall’800, tali pratiche sono adottate per lo più da professionisti della salute, organizzazioni religiose e curatori tradizionali, malgrado siano le famiglie stesse e le varie comunità a promuoverle con il fine ultimo di tentare di cambiare l’orientamento sessuale o l’identità di genere delle persone sottoposte ad esse, spesso parenti o amici.
Secondo quanto denunciato dagli attivisti per i diritti LGBTQI+, le pratiche più diffuse sono la psicoterapia, la somministrazione di farmaci, l’elettroshock, l’esorcismo, condizionamenti comportamentali, isolamento, privazione del cibo, abusi verbali e umiliazioni, ipnosi, percosse e altre violenze cosiddette “correttive”, stupro incluso. Per quanto le terapie di conversione siano ufficialmente respinte e condannate da Stati Uniti, Canada, Australia, Unione europea e dalla stessa ONU, pochi sono gli Stati che le hanno effettivamente vietate: tra cui (oltre ai Paesi già citati) troviamo Brasile, Ecuador, Malta e Taiwan.
… e in Italia?
Per quanto riguarda il nostro Paese, in Italia non si è ancora arrivati ad un’esaustiva normativa in merito, sebbene ce ne sia stata la possibilità nel 2016 con un disegno di legge presentato da Sergio Lo Giudice, che però non è mai stata discussa in Parlamento.
In un Paese dove gli episodi omobitransbofici sono all’ordine del giorno e dove il DDL Zan che dovrebbe tutelare le persone appartenenti alla comunità viene osteggiato da mesi, non è difficile immaginare il motivo per cui le testimonianze effettive di coloro che denunciano tali pratiche di conversione siano quasi rare da trovare.
Come riportato dai rappresentati di varie associazioni per i diritti LGBTQ+, «qualcuno pensa ai campi di conversione americani e all’elettroshock, ma c’è un ampio spettro di pratiche più subdole che non arrivano a quel livello, ma giocano su fede e senso di colpa, che agiscono a livello psicologico e sono più difficili da far emergere». Come ha ribadito lo stesso Lo Giudice, si tratta di «un sistema che finisce per alimentare la sofferenza di chi fatica ad accettare la propria omosessualità e finirà per essere sottoposto a uno stigma e a un dolore enorme. E se l’unica via che gli viene prospettata è una terapia di conversione, la intraprende».
Per questo sono state avviate diverse campagne di sensibilizzazione e di mobilitazione con l’obbiettivo di coinvolgere gli ordini professionali (per una presa di posizione netta contro la pratica della terapia di conversione) e i politici per aprire una discussione limpida, inclusiva e fruttuosa che possa fornire solide fondamenta alla Strategia per l’uguaglianza delle persone Lgbt adottatalo scorso 12 novembre dall’Unione europea.