La libertà di stampa sotto attacco
A dieci anni dall’ondata di proteste che ha investito il Nord Africa nel 2011, dopo molte discussioni, si è giunti alla conclusione che un ruolo chiave in tale sollevamento e nel suo propagarsi è stato certamente quello svolto dai social network utilizzati in presa diretta dai manifestanti.
Da quell’esatto momento in poi i social network e coloro che li utilizzano sono diventati i protagonisti di molti eventi cardine dell’ultimo decennio, plasmando il modo di comunicare della società moderna e quello in cui i cittadini si relazionano tra loro. Grazie al contributo dei nuovi mezzi di comunicazione, notizie ed idee si sono diffuse anche in quei Paesi dove troppo spesso la libertà di espressione viene repressa o controllata dalle autorità dei regimi autoritari, così come la libertà di informazione.
Libertà di stampa: il caso egiziano
Emblematico, a tal proposito, è il caso dell’Egitto che, insieme alla Tunisia, è stato il Paese della regione più interessato dalle ondate di proteste, tanto da portare alla caduta del regime di Mubarak, una delle figure politiche principali degli ultimi trent’anni di storia della regione e non solo.
I social media sono andati via via occupando una posizione di primo piano nella mobilitazione sociale, creando una realtà in cui cittadini, attivisti e giornalisti stanno acquisendo esponenzialmente un ruolo sempre più cruciale nel diffondere le notizie, denunciare i soprusi e ispirare l’introduzione di principi democratici. I canali più mainstream come Twitter, Facebook, Instagram e più recentemente TikTok hanno dimostrato tutto il potenziale dirompente e l’impatto che questi nuovi mezzi possiedono, spesso andando a sovrapporsi e sostituirsi a quelli più tradizionali come la carta stampata, la radio o la televisione. Non è un caso che un video postato su una di queste app e considerato “inappropriato” dalle autorità, in Egitto può costare fino a dieci anni di carcere.
Recentissimo è il caso di due giovanissime influencer condannate a dure pene carcerarie e al pagamento di una multa di 200mila sterline locali (circa 10.700 euro), con accuse di vario genere, che spaziano dal traffico di esseri umani alla frode fino ad atti contrari ai valori della società egiziana, poiché avrebbero utilizzato la loro fama per “sfruttare” persone povere promettendo loro denaro. I fatti si trascinano da tempo e sono stati anticipati da altri provvedimenti nei confronti di varie star del web o semplicemente studenti e attivisti, tra cui spicca la vicenda di Patrick Zaki.
Le ultime condanne a danno di Mawada al-Adham e Haneen Hossam hanno giustamente causato lo sdegno dei social e di molte personalità pubbliche, poiché l’unica colpa delle due ragazze è stata quella di pubblicare video in cui ballavano, cantavano o davano consigli su come guadagnare dall’uso dei social.
Khaled el-Balshy, ex presidente del Sindacato dei Giornalisti egiziani, ha dichiarato non molto tempo fa che «la libertà di stampa in Egitto è morta. La situazione va peggiorando di anno in anno e non è mai stata così drammatica come sotto il regime di al-Sisi. Il potere ha emanato leggi per bloccare il dissenso e l’informazione è sotto totale controllo dei servizi di sicurezza».
…e quello cinese
Come è stato denunciato più volte da Reporters Without Borders (RSF) e poi reso ufficiale dall’adozione della National Security Law, la Cina ha deliberatamente stretto la morsa sulla libertà di stampa, specialmente nell’ex colonia britannica. Ad un anno dalla legge che ha come target specifico Hong Kong, sono gli stessi giornalisti a denunciare come le condizioni di lavoro nel Paese non siano affatto migliorate, anzi. Ad esserne vittime non sono soltanto i reportes e gli attivisti locali, ma anche giornalisti e inviati provenienti da altri Paesi, le cui restrizioni sono state accentuate durante la pandemia da Covid-19.
È notizia dell’ultima settimana che il regime comunista di Pechino ha congelato i conti al principale ed ultimo giornale pro democrazia di Hong Kong, condannandolo a chiudere i battenti e arrestando il suo l’editorialista di punta. L’Apple Daily, con i suoi 26 anni di attività, pur essendo di proprietà di Next Digital, la società del magnate Jimmy Lai, non ha potuto fare niente contro la campagna di repressione che sferza l’intero Paese del dragone.
Mentre i poliziotti facevano irruzione nell’edificio della sede principale, accusando il giornale di aver violato proprio la legge sulla sicurezza, centinaia di persone con la torcia del cellulare accesa hanno organizzato una sorta di veglia per commemorare la morte della stampa libera e il lavoro svolto dal quotidiano.
Per mandare un segnale- che sa tanto di sfida contro Pechino- l’ultima edizione dell’Apple Daily è stata stampata per un milione di copie e migliaia sono stati coloro che, in fila anche sotto la pioggia, ne hanno acquistato almeno una. Il quotidiano, simbolo del racconto di una città, per un quarto di secolo è stata l’ultima frontiera nella denuncia al mondo di ciò che sta accadendo, soprattutto negli ultimi anni, nell’ex colonia britannica.
Molti segnali sembrano provare che lo Stato di diritto e le libertà di stampa ed espressione continuino a perdere terreno in tutto il mondo (anche in Occidente). La paura è che quest’ultimo caso di censura possa rappresentare solo l’inizio di un declino ben peggiore.