La Danimarca non vuole migranti
La Danimarca, ormai da qualche anno, sta attuando politiche apertamente xenofobe nei confronti dei rifugiati.
A partire dal 2015, con l’insediamento del governo di Helle Thorning la durata dei visti è stata gradualmente ridotta da 5-7 anni a 1-2, rendendo possibile, tra le altre cose, revocarli qualora si registri un miglioramento, anche lieve, delle condizioni di vita del Paese d’origine dei rifugiati. Tali provvedimenti hanno già interessato in passato circa 900 rifugiati somali, costretti a lasciare la Danimarca dopo aver vissuto per anni nel Paese e averne appreso la lingua.
Negli ultimi giorni il governo danese ha stabilito che Damasco, la capitale della Siria, sarebbe sicura e che, pertanto, non sussisterebbero più le ragioni per rinnovare i permessi di soggiorno. La misura dovrebbe interessare poco più di 250 persone, che potrebbero trovarsi in un limbo: a causa dell’assenza di accordi con la Siria molti si ritroverebbero nei centri per il rimpatrio dove, stando a diversi rapporti, i fondamentali diritti umani sarebbero frequentemente violati. In più, in molti non hanno più una casa in cui tornare a causa della guerra.
Tali politiche fanno parte del piano, preannunciato nel 2019, denominato “Paradigm shift”, con il quale il governo si impegna a passare da una politica di integrazione a una di rimpatrio, con l’obiettivo finale di azzerare del tutto il numero di richiedenti asilo.
I risultati non si sono fatti attendere, dal momento che il numero di rifugiati giunti in Danimarca nell’ultimo anno è inferiore a quello delle persone che sono partite. Snocciolando alcuni dati emerge peraltro che la popolazione danese è composta al 91% da nativi, il 5% da immigrati dell’UE e, infine, solo il 4% da cittadini extra-UE. Il governo danese sta attuando pericolose politiche conservatrici che, come già dichiarato dall’UNHCR, rischiano concretamente di danneggiare il processo di integrazione di quei – pochi – rifugiati considerati, almeno per il momento, “degni” di risiedere nel Paese.
Le sempre più frequenti derive xenofobe europee richiedono un cambio di rotta, ora più che mai.