I Comuni e il particolarismo italiano: un unicum europeo?
7904 è l’ammontare complessivo dei Comuni presenti sul territorio italiano, una cifra piuttosto importante se paragonata a quella degli altri Stati del vecchio continente.
La frammentazione amministrativa del Bel Paese non è una novità ma in realtà non è nemmeno un primato; è infatti la Francia a detenere il record europeo di Paese con il maggior numero di Municipalità (più di 36.500). Esiste tuttavia una profonda differenza tra i due Stati: mentre in Francia il particolarismo comunale è di fatto estraneo alle questioni relative all’eccessiva distribuzione del potere in quanto gran parte delle funzioni locali fanno capo alle Unioni di Comuni (circa 2000) e quindi ad istituzioni in grado di concentrare il particolarismo e amministrarlo in modo uniforme, in Italia la numerosità comunale non si risolve in simili enti intermedi ma è invece amplificata dal grado di autonomia che negli anni è stato devoluto agli Enti locali di qualsivoglia dimensione. Ed è proprio la dimensione in termini di popolosità uno dei principali problemi del nostro sistema amministrativo.
Il 70% dei Comuni italiani (5.521) non supera i 5.000 abitanti, un dato che ci conduce ad un’ulteriore considerazione: anche se giuridicamente non esistono grosse differenze tra le grandi municipalità (escludendo le città metropolitane) e quelle più piccole, nella realtà dei fatti quest’ultime certamente non godono dello stesso grado di autonomia sostanziale. Esse, infatti, devono spesso appoggiarsi alla rete dei servizi pubblici e commerciali dei Comuni limitrofi in quanto non sufficientemente grandi per poterli erogare autonomamente. Il panorama urbano italiano è dunque simile ad una fitta rete di autonomie in cui micro-realtà comunali non autosufficienti orbitano intorno ad Enti più popolosi. Un’indipendenza quindi meramente formale e tuttavia costosa in termini di risorse pubbliche economiche ed umane impiegate, una spesa che forse si potrebbe evitare o quantomeno razionalizzare.
La fusione, una soluzione che si scontra con il campanilismo italiano
Una soluzione che si è tentato di praticare negli ultimi decenni è la fusione, ovvero l’unione fra due o più Comuni contigui, una modificazione che secondo quanto sancito dagli articoli 117 e 133 della Costituzione deve essere deliberata dalla Regione che: «sentite le popolazioni interessate, può con leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni». Trattasi di un processo propriamente democratico che coinvolge direttamente le popolazioni interessate chiamate ad esprimersi sulla questione tramite referendum consultivo. Un quesito che tuttavia molto spesso, laddove proposto, ha trovato la resistenza della cittadinanza, riluttante all’idea di dover rinunciare alla propria identità comunale per puro spirito di campanilismo e diffidenza verso realtà limitrofe con cui spesso divampa lo spirito di competizione. Eppure, gli incentivi non mancherebbero: contributi straordinari statali erogati per dieci anni e la possibilità di istituire Municipi rappresentativi nei territori degli ex Comuni uniti sono solo alcune delle misure previste dal nostro ordinamento atte a favorire questa pratica.
Ma la riduzione del numero dei piccoli Comuni non è solo una manovra economica. In Europa gran parte dei Paesi che negli ultimi trent’anni hanno accorpato le proprie municipalità (Danimarca e Paesi Bassi su tutti) oggi si confermano tra le Nazioni europee più competitive secondo il Regional Competitive Index, grazie a centri urbani ampi e popolosi, in grado di offrire servizi e innovazione. Ma mentre l’Europa si adatta alle nuove sfide globali, in Italia il riformismo amministrativo non ha mai trovato terreno fertile e si è spesso espresso in tentativi di debole riorganizzazione. Di fatto dal 1992 al 2010 sono state tagliate solo 4 Municipalità (0,1%) mentre a partire dal 2009 le proposte di fusione accolte dalle Regioni sono state 137 per una riduzione di circa 200 unità comunali, uno sforzo irrisorio se paragonato al riformismo tedesco degli ultimi settant’anni (da più di 24 000 unità nel 1950 a 10.848 nel 2021). Un abbozzato rimedio ad un ingenuo disinteresse del passato, quando tra il 1950 e il 1992 il numero di Comuni in Italia era addirittura aumentato di quasi 320 unità (da 7 781 a 8 100).
Ancorata al retaggio comunale medioevale e al localismo patologico l’Italia intera da nord a sud fatica ad accettare compromessi identitari, specialmente se questi implicano la fusione con un Comune limitrofo con cui da sempre si combatte una lotta senza quartiere spesso fondata su premesse alquanto folkloristiche. Un’ostinazione frutto di un innato bisogno di autoaffermazione sull’altro, anche se l’altro, in questo caso, è il nostro vicino di casa.