Global tax, è la volta buona?
I ministri delle Finanze dei Paesi del G7 (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Canada e Giappone più l’Unione europea), riuniti a Londra, hanno trovato un’intesa sull’introduzione di una global tax del 15% per le multinazionali. In questo modo, le grandi imprese dovranno pagare le tasse nei Paesi dove operano e non solo dove hanno la sede principale.
Cosa comporta la global tax?
La proposta, avanzata principalmente dai Paesi europei, aveva incontrato sempre l’opposizione di Washington, mentre oggi sembra trovare l’assenso del Presidente Biden. L’iniziativa è volta a limitare il fenomeno per cui le imprese non pagano (o pagano meno) le tasse insediando le proprie sedi legali in quei Paesi che ospitano i cosiddetti “paradisi fiscali” ovvero quegli Stati in cui la tassazione per le gradi imprese è molto bassa e dunque vantaggiosa. L’obiettivo sarebbe dunque evitare che gli Stati concorrano slealmente sulla tassazione limitando allo stesso tempo la possibilità per le multinazionali di poter scegliere da sole quante tasse pagare. L’introduzione di una tassa globale è rivolta- e pensata- alle big tech come Google, Facebook, Amazon ed Apple, che tra l’altro hanno accolto positivamente la proposta, affidandosi alle decisioni più giuste ed eque della comunità internazionale. La tassazione minima del 15% si applicherà solo alle aziende con margine di profitto superiore al 10%.
La nuova aliquota potrebbe rappresentare una ridefinizione globale– a guida americana- della già presente digital tax europea, approvata nel 2019 e che prevede una tassazione del 3% sui servizi digitali. A quel tempo la tassa era stata fortemente osteggiata dalla precedente amministrazione americana, mentre l’atteggiamento propositivo degli Stati Uniti di oggi fa pensare a una convergenza con l’UE sulla questione. Gli effetti di questa misura potrebbero portare 48 miliardi di dollari annui di entrate per gli USA, 40 miliardi per l’UE e quasi 3 per l’Italia. Appare quindi chiaro che dietro all’entusiasmo per un ritorno al multilateralismo e alla cooperazione con l’Europa anche su temi finanziari, ci sia l’intenzione – e la necessità- di Biden di trovare risorse per finanziare il suo piano di investimenti volto a risanare l’economia USA danneggiata dalla crisi pandemica.
Le proteste dei paradisi fiscali
L’accordo è stato definito “storico”, anche se prevede un processo normativo ed attuativo molto lungo, perché potrebbe fornire ingenti somme finanziarie e al tempo stesso assicurare equità ai lavoratori di tutto il mondo. L’iniziativa potrebbe essere presto estesa ai Paesi del G20, l’organizzazione intergovernativa degli Stati industrializzati, il cui prossimo incontro si terrà a luglio in Italia. L’intesa dovrà inoltre essere confermata in sede OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), che conta 38 membri, la cui aliquota media è pari al 24%.
Nonostante il diffuso consenso, le proteste non sono certamente mancate: l’Irlanda, che offre un’aliquota al 12,5%, ha già minacciato un ricorso. Il ministro delle finanze irlandese Paschal Donohoe, ha twittato che qualsiasi accordo dovrebbe «soddisfare le esigenze dei Paesi piccoli e grandi, sviluppati e in via di sviluppo» e pertanto auspica una azione che coinvolga il maggior numero possibile di Stati e non solo le economie più forti. Anche altri Paesi europei come l’Olanda, Belgio, Lussemburgo e Svizzera potrebbero presto ostacolare l’andamento delle future discussioni sul tema.
La posizione italiana sulla global tax
Infine, commentando la decisione, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha confermato la posizione degli altri Stati membri del G7, affermando che la tassa globale rappresenta «un passo storico verso una maggiore equità e giustizia sociale per i cittadini». Pur già applicando la tassa digitale a livello europeo, questo nuovo accordo allargherebbe l’azione a livello internazionale e permetterebbe inoltre di imporre a tutte le multinazionali– non solo le grandi aziende tecnologiche- di pagare le tasse dovute e di bloccare un circolo vizioso sempre più evidente secondo cui i ricchi continuano a massimizzare i profitti mentre i poveri continuano a precipitare nel baratro. I 2,7 miliardi di dollari di entrate annue che scaturirebbero dall’applicazione della tassa potranno servire per mettere in moto politiche redistributive e finanziamenti a chi è in difficoltà. E visto che le nostre multinazionali toccate dalla tassa sono in numero estremamente ridotto rispetto al resto del mondo, la scelta non può che risultare vantaggiosa.