Giornata Mondiale contro l’Alzheimer 2021: a che punto siamo?
Sono passati più di cento anni da quel 1906 che vide il neuropatologo tedesco Alois Alzheimer studiare post-mortem il cervello di Auguste Deter, paziente nella sua clinica a Francoforte per una «unusual mental illness». Deter presentava perdita di memoria, problemi al linguaggio e comportamenti imprevedibili e il dottor Alzheimer non poteva certo immaginare che quella autopsia avrebbe cambiato il volto della medicina moderna. Il cervello di Auguste, infatti, presentava molti grumi anomali e altrettanti fasci intrecciati di fibre, oggi noti rispettivamente come placche di amiloide e grovigli neurofibrillari, nonché una marcata riduzione nel numero di neuroni.
Oggi, 21 settembre, si celebra proprio la giornata contro la malattia che deve il suo nome al dottor Alzheimer e che vide in Auguste Deter la prima vittima riconosciuta: il morbo di Alzheimer.
Morbo di Alzheimer: che cos’è?
Ad oggi, nel mondo, sono circa 50 milioni le persone affette da Alzheimer. Si stima che questa cifra sia destinata a crescere nei prossimi anni, soprattutto nei Paesi industrializzati: l’Alzheimer Association ipotizza che, solo negli USA, la popolazione affetta da una qualsiasi forma di demenza, inclusa quella data dall’Alzheimer, sarà quasi di 90 milioni entro il 2050; secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il numero complessivo potrebbe arrivare a 107 milioni, con una ricaduta economica incredibile sullo Stato e le famiglie. L’invecchiamento della popolazione è la causa principale: l’età, infatti, è il primo fattore di rischio per la diagnosi del morbo di Alzheimer, con una probabilità di sviluppare la malattia che raddoppia ogni cinque anni a partire dai sessanta anni.
I sintomi sono quelli tipici della demenza: dalla perdita della memoria a problemi nella sfera attentiva e del linguaggio, fino ad arrivare a disturbi della capacità di autogestione e problem solving. La differenza tra i sintomi della malattia di Alzheimer e i normali, piccoli cambiamenti che accadono con l’età sta nel grado di pervasività dei cambiamenti stessi: le persone affette da demenza presentano un deterioramento delle funzioni cognitive e comportamentali che interferisce con le normali attività quotidiane.
A livello cerebrale, il problema sta nel processamento anomalo della proteina precursore dell’amiloide, che, invece di essere “tagliata” in un certo punto, è “tagliata” in un altro e dà così origine alla proteina β-amiloide. Quest’ultima si accumula, poi, in placche, causando una serie di alterazioni a livello cellulare che rompono l’omeostasi e provocano danni. La cascata di cambiamenti data dall’accumulo di β-amiloide ha ripercussioni su una seconda proteina, la tau, che diventa iperfosforilata e si accumula in quelli che vengono chiamati grovigli neurofibrillari. Gli accumuli extracellulari di placche di β-amiloide e intracellulari di grovigli neurofibrillari di proteina tau, accompagnati da una sostenuta risposta infiammatoria, distruggono il passaggio dei neurotrasmettitori fondamentali per la funzionalità dei neuroni, inibendo la comunicazione tra essi e provocando la perdita di sinapsi, fino a causare la morte delle cellule.
Nuove frontiere di trattamenti
Se spesso le terapie non farmacologiche, come la stimolazione cognitiva, possono portare benefici ai malati di Alzheimer, fino a pochi mesi fa sembrava che la ricerca per le terapie farmacologiche fosse, invece, ad un impasse. Tutti i farmaci in commercio agivano esclusivamente sui sintomi e nessuno di quelli in sperimentazione aveva passato la fase III dei trial clinici, quella in cui si testano efficacia e sicurezza, con il risultato che alcune grandi aziende, a causa dei costi esorbitanti, avevano deciso di abbandonare la ricerca.
Non sorprende, quindi, il fatto che la decisione dello scorso 7 giugno della Food and Drug Administration (FDA) di approvare, tramite l’Accelerated Approval Pathway, il nuovo farmaco aducanumab, venduto da Biogen, abbia destato grande scalpore. Secondo i test dell’azienda, l’aducanumab agirebbe direttamente sulle cause della malattia, eliminando gli accumuli di β-amiloide, riducendo così gli effetti devastanti sui neuroni e, di conseguenza, sulle capacità cognitive. I risultati di questi test, nonché la stessa approvazione, benché “condizionata”, sono stati duramente criticati: appena pochi mesi prima infatti, nel novembre 2020, la stessa FDA aveva respinto la richiesta, sostenendo che le prove di efficacia portate fossero inconcludenti e i rischi per la sicurezza ancora troppo elevati.
Mentre nuove sperimentazioni sono già in atto, la controversia aperta tra coloro che vorrebbero risultati più decisivi e chi, invece, vede il farmaco come un’arma in più in grado di far fronte al «vasto bisogno insoddisfatto della comunità dei malati di Alzheimer» andrà sicuramente ad infuocare il dibattito su una malattia così debilitante e costosa da dover essere, inevitabilmente, tra i primi punti dell’agenda sanitaria di ogni Paese.
Editing e fact checking a cura di Claudio Annibali