Essere migranti LGBTQ+
L’Art 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani recita: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. […]».
Nonostante non se ne parli molto, l’orientamento sessuale e l’identità di genere rientrano tra i fattori di spinta delle migrazioni. Lo scorso 17 maggio è stata la giornata Internazionale contro l’omobitransfobia, ricorrenza istituita in quella data poiché lo stesso giorno, nel 1990, l’OMS depennò l’omosessualità dalla classifica internazionale delle malattie. Oggi, lo scopo di questa giornata è di sensibilizzare più possibile le persone alla tolleranza e all’inclusione e condannare tutte le azioni omofobe e discriminatorie che avvengono quotidianamente anche nei Paesi ritenuti democratici. Ci sono nazioni in cui amare qualcuno dello stesso sesso ancora oggi è reato, per questo va tenuto conto anche dei rifugiati LGBTQ+, doppia condizione che dovrebbe garantire maggiori protezioni nella nazione ospitante, ma che in realtà rappresenta spesso solo un doppio motivo per essere discriminati.
La situazione oggi
Nel 2021 in circa 70 Paesi membri delle NU le relazioni consensuali omosessuali sono ancora reato e in 11 di questi è prevista la pena capitale. In Italia le Commissioni Territoriali non rilasciano dati sui motivi per cui i rifugiati presentano richiesta d’asilo, ma possiamo rilevare come nella top 10 dei Paesi di provenienza dei migranti nel 2020, in tutti l’omosessualità è reato, tranne in Costa d’Avorio , dove è legale, ma sono proibite le unioni civili.
Migranti LGBTI+ e status di rifugiato
La Convenzione di Ginevra del 1951 stabilisce che lo status di rifugiato può essere richiesto da chi teme di essere perseguitato per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza ad un determinato gruppo politico, ma non parla né di identità di genere né di orientamento sessuale. In un secondo momento, con successivo protocollo, si è ritenuto includere anche l’orientamento sessuale come motivo di persecuzione per cui chiedere protezione internazionale nella fattispecie di “appartenenza a un particolare gruppo sociale” prevista dalla suddetta. Esperienza comune tra i rifugiati LGBTQ+ è il “dovere” di nascondere il proprio orientamento sessuale nel proprio Paese/comunità a causa di pressioni sociali, discriminazioni e sanzioni criminali ed è per questo che spesso si hanno poche prove che dimostrino l’appartenenza alla comunità LGBTQ+ e quindi richiedere protezione internazionale per tale motivo può divenire molto difficile. Con i Principi di Yogyakarta, discussi ed elaborati in Indonesia ed in vigore dal 2007, cruciale è l’applicazione della legge per la protezione dei diritti umani connessa all’orientamento sessuale e all’identità di genere tramite raccomandazioni.
Non poter esprimere il proprio orientamento sessuale o essere costretti a reprimerlo in una società che non tollera altre forme di identità di genere, e non solo, può costituire motivo di persecuzione tramite azioni discriminatorie, violazione del diritto alla privacy e lesioni di diritti fondamentali come quello di libertà ed opinione.
Il contributo delle Corti italiane
Il fatto che in Costa d’Avorio l’omosessualità non costituisca reato, non significa che sia ben accetta nel Paese. Due anni fa la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di un cittadino ivoriano contro una pronuncia della Corte d’Appello di Catanzaro. L’uomo, di religione islamica, coniugato e con figli a carico, chiese la protezione internazionale in quanto vittima di discriminazioni e minacce da parte della comunità e della famiglia per una relazione omosessuale; dichiarò di essere fuggito quando il suo compagno venne ucciso in circostanze sconosciute. A quel punto la Commissione Territoriale gli negò la protezione poiché in Costa d’Avorio non è reato l’omosessualità, senza approfondire il caso. La Cassazione, nell’accogliere il ricorso del cittadino ivoriano, ha affermato che nonostante l’omosessualità nel Paese non sia un reato de iure, bisogna effettivamente accertare se lo Stato protegga e tuteli le persone appartenenti alla comunità LGBTQ+.
Con questa sentenza, la Cassazione ha aumentato i controlli necessari prima di negare lo status di rifugiato a chi denuncia persecuzioni nel proprio Paese dovute al proprio orientamento sessuale, dovendo accertare che le forze di sicurezza mettano in campo effettivi controlli ed “adeguata tutela” per garantire il rispetto dei diritti degli omosessuali.
Nonostante il panorama europeo su questa tematica sia molto frastagliato, l’Italia è uno tra i Paesi più garantisti dell’UE sulla questione, avendo sottolineato diverse volte come criminalizzare l’orientamento sessuale sia di per sé una persecuzione. Nonostante le varie contrapposizioni politiche interne sul tema migranti, queste decisioni della Corte contribuiscono a rendere l’Italia un modello da seguire per la protezione dei richiedenti asilo sulla base dell’orientamento sessuale.