E se “calcolassimo” la felicità invece del PIL?
«Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell’equità dei rapporti fra noi. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta».
Robert Kennedy, – Discorso alla Kansas University (18 marzo 1968)
Al giorno d’oggi possiamo ancora affidarci esclusivamente al PIL? Considerarlo il solo ed unico metro di misura del progresso? Abbiamo perpetrato questo automatismo per anni e, per certi versi, continuiamo a farlo tutt’ora. Non di rado capita di assistere alla celebrazione di questo indicatore: l’utopia della crescita del PIL come risoluzione a tutti i mali della società.
Così, accade spesso che Nazioni con un PIL molto elevato vengano subito elette ad “avanguardie dello sviluppo”, tralasciando magari i dettagli scabrosi circa la forma di governo in cui tale ricchezza sembra fiorire, sorvolando sulla qualità della vita di chi quel PIL lo costruisce ogni giorno a spese del proprio benessere. Crescita economica e benessere, un binomio auspicabile ma non sempre scontato che a volte rifugge dal principio causa-effetto. Ma procediamo per gradi.
PIL e benessere, un’associazione fuorviante
Il PIL (GDP gross domestic product) è un indicatore macroeconomico che esprime l’andamento dell’economia annua di uno Stato ma, in quanto indice monodimensionale, esso non riesce a spiegare le dinamiche multivariante che conducono ad un determinato livello di benessere in un dato periodo di tempo. Per benessere intendiamo invece una condizione di prosperità che è sinonimo di felicità, una variabile complessa che comprende non solo fenomeni economici, ma anche sociali e ambientali. Un insieme di elementi più ampio rispetto a quelli presi in considerazione dal PIL.
Succede così che potenze mondiali del calibro di Cina ed India (tra le prime 5 economie al mondo) siano poi Paesi attraversati da profonde disuguaglianze sociali, mentre invece realtà economiche marginali come quelle scandinave (Svezia e Finlandia sono rispettivamente ottava e dodicesima nel ranking europeo 2019 secondo l’Eurostat) si rivelino estremamente competitive sul piano ambientale e sociale, tanto da essere premiate tra i primi dieci Stati più felici al mondo secondo il World happiness report (primo posto per la Finlandia e sesto per la Svezia su un totale di 149 Stati presi in considerazione).
Un esempio meno noto è invece il Bhutan, piccolo Stato montuoso dell’Asia che ormai da qualche anno adotta come indicatore alternativo al PIL il FIL, “felicità interna lorda” (GNH gross national happiness), esprimendo con tale scelta un sistema di priorità insolito: la felicità è anteposta alla ricchezza, al punto che il Paese è fiero di dichiararsi tra gli Stati più felici al mondo nonostante un tasso di povertà piuttosto preoccupante.
Spostandoci in Italia, non possiamo non constatare come la devozione quasi religiosa al PIL sembri essersi tutt’altro che affievolita: i media nazionali non mancano quotidianamente di ricordarci l’entità sempre più ingombrante del nostro debito pubblico e la condizione di ristagnamento economico in cui versiamo da ormai più di un decennio. Eppure, qualcosa sembra essersi mosso in una direzione diversa negli ultimi tempi.
Superare il PIL attraverso il BES
Nel 2010 Istat e CNEL hanno elaborato un indice in grado di valutare contemporaneamente ben 12 dimensioni riconducibili alla formula del benessere. Si tratta del BES (benessere equo e sostenibile), una batteria di più 150 indicatori ad elevata qualità statistica per un elenco di dati che permette di condurre analisi più accurate circa quegli aspetti che influiscono maggiormente sulla qualità della vita dei cittadini italiani. In qualità di strumento utile a fornire una valutazione sull’impatto delle politiche pubbliche, nel 2016, il BES entra per la prima volta nel Bilancio dello Stato (legge n. 163/2016) sottoforma di documento allegato al DEF (documento di economia e finanza). Le aree del benessere a cui questo indice fa riferimento spaziano dalla salute all’istruzione, dalla qualità dei servizi all’innovazione fino alle relazioni sociali, al lavoro e alla sicurezza.
Il pensiero che sottende al BES è preciso, il PIL è “figlio del suo tempo”, esprime valori propri di un’epoca che non ci appartiene più ed è per tale motivo che è necessario individuare un metro di misura che corrisponda alle esigenze di una società che evolve. Ciò significa ripensare al progresso in termini che superino la sola ed unica dimensione economica, considerare quindi ciò che determina realmente e quotidianamente la qualità della vita di un individuo. Il passaggio dal PIL al BES potrebbe rappresentare, infine, anche l’espressione di un nuovo paradigma che dalla logica della “quantità” porta a quella della “qualità”, dalla crescita senza misura alla sostenibilità ed equità del progresso.