Darién Gap: l’inferno della rotta migratoria americana
Quando si pensa ai flussi migratori americani, la mente -o almeno quella degli europei- corre immediatamente alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, al Río Bravo, alla grande barriera doganale che nell’immaginario occidentale separa il sogno americano dal resto del Nuovo Mondo, quello sempre rappresentato con un filtro color sabbia nei film di Hollywood.
Le ultime notizie di cronaca internazionale ci hanno ricordato con brutalità quanto quel limite sia estremamente difficile da valicare da chi viene da sud: gli scontri con la polizia di frontiera americana sono all’ordine del giorno e spesso capita che il confine degli States si presenti sotto forma di un agente a cavallo. In molti però ignorano che, per chi migra, il passaggio di quella frontiera rappresenta spesso solo l’ultimo capitolo di un libro che può aver avuto inizio in molti luoghi, dal Venezuela ad Haiti a Cuba o forse persino in Somalia, Costa d’Avorio o in Afghanistan, ma che sicuramente ha visto scrivere le sue pagine più dolorose nell’inferno del Darién.
Migrants attempting to walk from South America up to North America must cross 66 miles of impenetrable jungle in a notorious passage known as the Darién Gap. This is what one day of that journey looks like. https://t.co/xtBBf0TWDq pic.twitter.com/99ONGp6tyc
— The New York Times (@nytimes) October 2, 2021
Il Darién è una foresta che segna il confine tra Colombia e Panama e dunque tra Sudamerica e Centroamerica, si estende per circa 340 km da est a ovest e per poco più di 100 km da nord a sud. È conosciuta come Darién Gap (El Tapón del Darién in spagnolo) in quanto costituisce di fatto uno spazio “vuoto” che interrompe la “Panamericana”, l’autostrada che dovrebbe collegare l’Alaska alla Terra del Fuoco in Argentina, nell’estremo sud del continente (25mila km). Mai nessuno, né gli spagnoli né chi venne dopo, è riuscito a “riempire” il gap e oggi il Darién è una “terra di nessuno” che rientra in due parchi nazionali, ma di cui né Panama né Bogotà ha mai reclamato la giurisdizione, al contrario di alcune comunità indigene.
L’assenza di controlli, dunque, insieme all’inasprimento degli stessi lungo la rotta mediterranea e balcanica in Europa, hanno fatto sì che negli ultimi anni il Darién venisse eletto come tappa del proprio percorso migratorio non solo da haitiani, venezuelani e cubani ma anche da moltissimi africani e asiatici; questi ultimi dopo essere arrivati in Colombia dal Brasile attraverso l’Atlantico. Dal 2004 (data di nascita di Frontex in Europa) la rotta del Darién ha subito un’impennata: nel 2016 la foresta è stata attraversata da più di 30mila migranti, nel 2021 sono stati più di 90mila.
Il Darién è una tappa, un luogo di passaggio così come anche, su scala più ampia, la Colombia. Il percorso verso la foresta, infatti, inizia nella cittadina di Necoclì, nel Golfo di Urabà, una cittadina di poche migliaia di abitanti in cui i migranti giungono per imbarcarsi verso un’altra cittadina: Acandì, situata dall’altra parte del golfo, all’estremo nord del Paese, al confine con il Darién e scollegata dal resto della Colombia. In migliaia aspettano per mesi a Necoclì in attesa di un posto in un’imbarcazione di fortuna e in molti trovano la morte nella traversata in mare. La scorsa estate la cittadina ha visto l’arrivo di più di 12mila migranti fuggiti da Haiti a seguito dei disastrosi eventi che hanno colpito il Paese nei mesi precedenti, tra cui l’ennesimo sisma e la crisi istituzionale scatenata dall’assassinio del presidente Moise.
Una volta arrivati alle porte della foresta, la strada si interrompe, non ci sono più sentieri da seguire. Inizia la giungla.
L’inferno del Darién
La foresta è situata in una delle zone più umide e piovose del pianeta, le piogge sono frequenti e i corsi d’acqua spesso straripano. Il Darién, però, non è l’Amazzonia: chi l’attraversa non si troverà di fronte una sterminata giungla pianeggiante, ma un territorio impervio in cui si alternano paludi e rilievi fino a 1800 metri. È difficile orientarsi, è facile invece imbattersi in contrabbandieri, ex guerriglieri delle FARC e trafficanti di armi e di droga.
Nel Darién si muore di fame, di sete, di fatica, annegati o uccisi. Tutto ciò rende questa rotta una delle più letali al mondo.
Non si sa con certezza quante persone trovino la morte ogni anno nella foresta: le autorità panamensi, infatti, possono registrare solamente quanti escono dalla foresta non sapendo però quanti ne entrino. Ciò di cui si è a conoscenza sono, invece, le indicibili sofferenze affrontate da chi ce l’ha fatta. Rapine, violenze, mutilazioni, stupri e uccisioni. Questo è ciò di cui parlano i migranti a chi offre loro aiuto e supporto a Bajo Chiquito, Lajas Blancas o San Vicente, appena fuori dalla foresta, a Panama. Qui opera anche l’UNICEF che nel 2021 ha registrato, tra i migranti del Darién, il numero di minori più alto di sempre: 19mila bambini. «In questa fitta foresta tropicale- scrive l’UNICEF- le famiglie di migranti con bambini sono particolarmente esposte alla violenza, inclusi abusi sessuali, tratta ed estorsioni da parte di bande criminali», il che rende di fatto ognuno di quei bambini un sopravvissuto. Tra i migranti passati nel 2021 per il Darién, più di 1 su 5 sono bambini, 150 non accompagnati (più di 20 volte il numero registrato nel 2020).
On foot through the deep jungle.
— UNICEF Latin America (@uniceflac) October 12, 2021
Some of them are alone and without their parents.
That is the reality that nearly 19,000 children lived this year walking through the Darien Gap, the border between Colombia and Panama.https://t.co/p33BM4KUBo @unicef #AChildIsAChild pic.twitter.com/PBhf09QljI
Secondo l’UNICEF il numero di minori che attraversano a piedi il Darién è destinato a crescere nel prossimo futuro così come il numero generale di famiglie. Si tratta di nuclei che si formano lungo il percorso migratorio che a volte può durare 5 o 10 anni e durante i quali vengono messi al mondo dei figli. In molti, infatti, si trovano costretti ad accettare lavori scarsamente retribuiti nei Paesi di transito come Brasile e Colombia per poter mettere da parte la cifra necessaria per affrontare il lungo viaggio verso gli Stati Uniti. A quel punto anche i figli proseguono il percorso migratorio insieme ai genitori. Un tragitto che dopo il Darién porta in Costa Rica, Nicaragua, Honduras e solo alla fine in Messico.
La risposta internazionale
Proprio lo scorso ottobre i ministri degli Esteri dei principali Stati americani si sono riuniti a Bogotà per un vertice sulle questioni migratorie, co-organizzato da Colombia e Stati Uniti, e impostosi violentemente nell’agenda regionale dopo la pubblicazione degli ultimi report.
«I partecipanti- si legge in una nota del Dipartimento di Stato americano- hanno convenuto che il flusso irregolare di migranti richiede una risposta regionale, nonché risorse globali, radicate nella solidarietà verso i migranti e tra gli Stati, e nella protezione e promozione dei diritti umani dei migranti». La Colombia, dal canto suo, ha posto l’accento sulla necessità di mettere in campo il piano internazionale di infrastrutture annunciato dal presidente americano Biden durante lo scorso G7: il “Build Back Better World” (B3W). «La soluzione strutturale al problema della migrazione- ha detto la ministra degli Esteri colombiana Marta Lucía Ramírez – deve passare da una maggiore cooperazione in investimenti, in sviluppo economico, in generazione di impiego. Perché la migrazione continuerà se non si creano opportunità economiche e di lavoro nei Paesi di origine».
L’obiettivo, infine, sarebbe quello di fornire a tutti i Paesi della regione strumenti e capacità migliori per farsi carico di una quota dei flussi migratori che, anche se diretti verso gli Stati Uniti, coinvolgono tutta la regione. Potenziare investimenti e cooperazione in particolare nei Paesi del Sudamerica e dei Caraibi permetterebbe di ridurre i flussi migratori interni e di creare le condizioni per fermarsi a chi viene da fuori. In questo modo anche un inferno come il Darién Gap potrebbe tornare ad essere solo un paradiso naturale: la maggior Riserva di biosfera dell’America centrale.
Editing e fact checking a cura di Alice Spada