Confini che uccidono: la strage di Melilla
Venerdì 24 giugno, mattina presto. A quell’ora le temperature sono ancora clementi in Marocco, nei dintorni del Monte Gourougou, vicino all’enclave spagnola di Melilla, ma si preannuncia una calda giornata estiva. Sta albeggiando, per terra si disegna un gioco di chiaroscuri. È l’ora ideale per provare a fare il “salto”. Centinaia di persone si incamminano verso la Valla, la barriera di Melilla che separa l’Europa dall’Africa, nella speranza di superare la recinzione e assicurarsi un futuro migliore. Non andrà così. Il bilancio a fine giornata mostra la spietatezza di un confine sempre più invalicabile: 133 le persone che sono riuscite ad attraversare il confine; decine di persone arrestate e detenute a Nador, la città marocchina più vicina; tantissimi feriti e, infine, un numero di morti incerto che oscilla fra 23, dato delle autorità marocchine, e 37, secondo l’ONG spagnola “Caminando Fronteras”.
La frontiera a Melilla
Melilla è una delle due enclave spagnole in territorio marocchino e gode di uno status privilegiato e di un’autonomia territoriale. Assieme a Ceuta, l’altra enclave, è l’unica porta d’accesso territoriale all’Europa arrivando dall’Africa ed è diventato uno dei confini maggiormente militarizzati e sorvegliati al mondo. La barriera di Melilla si compone di tre muri, alti tra i 7 e i 10 metri, contornati da filo spinato, videosorveglianza, infrarossi e diverse forme high-tech di controllo. Rappresenta concretamente l’idea della “Fortezza Europa”: quell’immaginario, alimentato dalle immagini sensazionalistiche dell’attraversamento del confine, che raffigura un’Europa “in pericolo” assaltata e assediata da orde di migranti, da cui deve difendersi. Una “Fortezza Europa” presentata come vittima di un’invasione ma che, in realtà, nasconde la violenza e la crudeltà delle sue politiche di chiusura.
Le immagini di coloro che il 24 giugno non ce l’hanno fatta ad attraversare la barriera, riprese dall’Association Marocaine des Droits Humains (AMDH), mostrano la cruda realtà dei rapporti di potere: decine di persone ammassate a terra, le une sopra le altre, rinchiuse per ore in una recinzione sotto il sole cocente e sorvegliate a vista dalla polizia marocchina. Persone impossibilitate a fare richiesta d’asilo, disumanizzate e ridotte ad una dimensione corporale, accerchiate da poliziotti che ribadiscono la propria autorità ponendosi in piedi sopra di esse. Picchiate e maltrattate dalla Guardia marocchina per il solo gusto di farlo, e perché possono farlo senza subire nessun tipo di responsabilità.
L’inaccettabile prassi europea
Pedro Sanchez, capo del governo spagnolo, il giorno successivo ha indetto una conferenza stampa, definendo quanto successo a Melilla come un “attacco violento organizzato dalle mafie” ed elogiando l’operato delle autorità marocchine nei termini di un’“operazione ben risolta”. La dichiarazione ha suscitato polemiche e molti cittadini spagnoli sono scesi in piazza a protestare contro i metodi di respingimento in violazione dei diritti umani adottati dalla polizia marocchina in collaborazione con quella spagnola.
De cette manière violentes et armés de pierre, bâtons et couteaux, les migrants ont attaqué ce matin la barrière avec Melilla. 150 boozas. Bcp de blessés. pic.twitter.com/gsG0rxHvb9
— AMDH Nador (@NadorAmdh) June 24, 2022
Il coordinamento fra forze dell’ordine di due Stati diversi nei pushbacks è ormai una prassi, specialmente fra i Paesi membri dell’Unione europea e alcuni Stati terzi: in cambio di tecnologie e finanziamenti vengono stretti trattati o accordi informali di collaborazione per il respingimento sulle frontiere. Semplificando: soldi per cacciare esseri umani “sgraditi”. Questo complesso sistema di sorveglianza transnazionale, definito “politica di esternalizzazione della frontiera”, è sostenuto economicamente dai fondi europei. Dalla Turchia, alla Libia e passando per il Marocco, l’obiettivo rimane sempre impedire concretamente e con qualsiasi mezzo ai migranti africani di accedere ai confini europei, calpestandone i diritti umani. Così come la “guardia costiera” libica riporta le persone nei centri di detenzione con i mezzi e i soldi forniti dallo Stato italiano, così il Marocco può impunemente respingere i migranti con qualsiasi mezzo.
Inoltre, nel caso spagnolo, l’accordo con il Marocco passa anche sulla pelle dei saharawi, gli abitanti del Sahara Occidentale, una zona occupata illecitamente dal Marocco. Cedendo al ricatto di Mohammed VI, il sovrano marocchino che nel 2021 aveva deciso di sospendere i controlli delle frontiere a Ceuta permettendo 8 mila accessi, Sanchez ha riconosciuto la legittimità di questa occupazione e successivamente ha siglato un accordo di cooperazione fra i due Stati in materia di sicurezza e lotta alla criminalità. Il risultato è visibile con i fatti del 24 giugno.
L’esperienza dei giovani: Lara e Solidary Wheels
Lara è una volontaria di Solidary Wheels, una ONG spagnola che ha un suo centro proprio sul territorio di Melilla. L’associazione è nata nel giugno 2019 e si pone come obiettivo il sostegno a coloro che arrivano in Europa. È un’associazione aperta, non gerarchica e orizzontale, in cui tutti possono dare una mano. Lara, oltre ad aver collaborato online, ha vissuto come volontaria due mesi a Melilla: per questo le chiedo di raccontarmi la sua esperienza.
«Io volevo arrivare lì con la mente aperta per vedere e ascoltare», mi dice e aggiunge: «sono 12 km quadrati, una città piccola e la prima impressione che ho avuto è stata uscita dall’aeroporto, passata intorno alla Valla, al muro, e…cavolo sono 12 km. A me ha fatto molta impressione». Mi racconta che l’associazione si occupa principalmente del supporto alle “persone in movimento” marocchine: ragazzi intorno ai vent’anni che cercano di entrare a Melilla passando per il mare, facendo anche 6 o 7 ore di nuoto e che poi non trovano accoglienza nel CETI (Centro de Estancia Temporal de Immigrantes). Loro offrono spazi sicuri, informazioni sui loro diritti e su come fare richiesta di protezione internazionale. «Si cerca di far sì che siano soggetti attivi nel loro transito migratorio, che siano consapevoli dei diritti che hanno». Sottolinea che è un’associazione che ruota intorno alle persone, ai bisogni che hanno, in continuo cambiamento.
Mi spiega che lo scopo di Solidary Wheels è contrastare quest’odio per le persone in movimento perché «la migrazione è un diritto ed è parte della nostra storia di esseri umani». È una realtà che vuole alzare la voce e fornire una narrazione controcorrente. Per questo motivo mi mostra l’importante lavoro di documentazione che la loro associazione si propone di fare, come nel caso del report sui respingimenti violenti attuati da parte della polizia spagnola contro i seimila tentativi di “salto” compiuti nei primi giorni di marzo, di cui si ha avuto scarsa notizia nel resto d’Europa.
Quando le chiedo di darmi un suo pensiero sul futuro dell’Unione europea e sulle sue politiche di immigrazione esprime uno sbuffo frustrato. «Non lo so», mi dice, «sono sempre più delusa, la politica si sta incamminando verso quello che non dovrebbe. Faccio quel che faccio perché non voglio rassegnarmi davanti a queste politiche che non mi rappresentano però…. Cosa mi aspetto? Mi aspetto di prendere consapevolezza e che i nostri governi, i nostri politici, si rendano conto che è una cosa che non si può fermare». Poi aggiunge: «si è dimostrato con l’Ucraina che se si vuole si possono creare dei corridoi umanitari, far si che queste persone arrivino per vie legali e sicure. Questo è fondamentale. Nell’ultimo salto si parla del Sudan [la maggior parte dei migranti erano sudanesi] ed è un territorio attraversato da conflitti umanitari, crisi climatica, crisi ecologica e periodi di carestia molto gravi».
La domanda che ci sorge è perché alcune persone possono ottenere asilo e altre no. «Come società vorrei fare una riflessione intorno a questo», mi risponde, «provare a dirlo, a parlarne perché secondo me c’è quello che non si dice… si parla del razzismo negli Stati Uniti ma noi non siamo meglio».
Dare una voce alla crudeltà del confine
La conversazione con Lara tocca anche il concetto di privilegio. Un privilegio che i giovani bianchi europei si portano appresso senza rendersene conto, quello di non subire il razzismo sulla propria pelle. Per questo, bisogna dar voce a chi prova l’esperienza crudele del confine, a quei giovani che vivono dall’altra parte del muro.
Così c’è la storia di Mohammed Abdelsad, 17 anni compiuti da poco, che racconta ad una giornalista di come lui e suo fratello abbiano tentato 21 volte di entrare a Ceuta e 6 volte a Melilla. Nell’ultimo tentativo dice che suo fratello è morto, ha visto la polizia marocchina mettere il suo corpo assieme a dozzine di morti, separandolo dai vivi. Poi non ha saputo più niente. Mohammed è stato caricato su dei bus che lo hanno trasportato a Casablanca, dove vive in una scuola abbandonata alla periferia della città. Ora deve ricominciare questo crudele gioco dell’oca, da capo e da solo.
Human rights groups in Morocco and Spain demand an investigation into the deaths of 23 people during an attempted mass crossing into the Spanish enclave of Melilla in northern Africa ⤵️ pic.twitter.com/5SrihArWoX
— Al Jazeera English (@AJEnglish) June 28, 2022
Mohamed Ali, Ibrahim e Malik Binladin raccontano dei violenti pestaggi eseguiti su di loro dalla polizia marocchina, di come siano stati trasportati a Casablanca nonostante la necessità di cure ospedaliere e di autobus pieni di persone con destinazione il deserto di Algeria. Avrebbero diritto a chiedere asilo in Europa ma a loro viene negato. Sono giovani che chiedono ascolto, giustizia e la possibilità di un futuro migliore. È dalle loro testimonianze che è possibile ricostruire la realtà di quel sistema malato che l’Unione europea contribuisce a finanziare e capire come la quotidianità al confine sia intrisa di violenza e razzismo istituzionale.
Le immagini riprese dalla AMDH mostrano un manganello che tocca le persone per capire se sono vive o morte, un agente che getta un corpo floscio nel mucchio di ammassati, come se fosse un sacco di spazzatura. Reificazione, disumanizzazione. Dall’altra parte c’è la vita di Alamin, un ragazzo sudanese, che si porta appresso un taccuino in arabo, il suo diario. «Scrivo perché tutto ciò che stiamo attraversando come rifugiati non venga dimenticato. Per i miei compagni di squadra, ma anche per me».
Il corpo trattato con crudezza ed indifferenza poteva essere Alamin. È anche Alamin. Rappresenta l’umanità uccisa alle porte d’Europa. Non può essere questa l’Europa.
Editing e fact checking a cura di Ilaria Sacco