Che significa essere apolidi?
Secondo il dizionario Treccani gli apolidi sono persone che, perdendo la loro cittadinanza originaria e non avendone acquisita un’altra, non risultano legalmente cittadini di nessuno Stato. Era il 28 settembre 1954 quando, a New York, veniva istituita la Convenzione sullo status degli apolidi, seguita, nel 1961 dalla Convenzione sulla riduzione dell’apolidia che delinea e riconosce i diritti fondamentali e internazionalmente riconosciuti di questa categoria di individui che altrimenti non troverebbero alcuna tutela.
L’UNHCR (United Nations Refugee Agency), contribuisce, dal punto di vista esperienziale, alla definizione del Treccani sottolineando come le persone apolidi, non avendo patria d’appartenenza e non avendo una cittadinanza che, in qualche modo, vada a definire dei diritti, vivano nella condizione dell’invisibilità che porta ad un’estrema marginalizzazione degli individui nella società, contribuendo a rendere difficile sapere precisamente il numero degli apolidi nel mondo. Ciò è dovuto in particolare a 2 motivi principali:
- non tutti gli stati comunicano i dati relativi alle persone apolidi che si trovano sul proprio territorio;
- il fenomeno ha difficoltà ad essere rappresentato tramite dati anagrafici.
Come si diventa apolidi?
La condizione di apolidia si verifica per vari motivi:
- Quando ci sono lacune nella legislazione sulla cittadinanza dei vari Stati;
- Se, a causa di conflitti, crisi nazionali o occupazioni militari, si diventa profughi;
- A causa di migrazioni forzate;
- Se si è figli di apolidi;
- In caso non si abbia la possibilità di ereditare la cittadinanza dei propri genitori;
- Se si fa parte di un gruppo sociale a cui, per motivi discriminatori, viene negata la cittadinanza (come i Rohingya in Birmania, musulmani in una nazione buddhista);
- A seguito della dissoluzione dello Stato di cui si era cittadini, che ha dato poi vita a nuove entità nazionali (i Rom provenienti dall’ex Jugoslavia o i cittadini dell’ex URSS);
- Se lo Stato non permette alla madre di trasmettere, come per il padre, la propria nazionalità nei casi in cui quest’ultimo sia deceduto o ignoto.
Secondo i dati risalenti allo scorso anno e tratti dal Rapporto Global Trends dell’UNHCR gli apolidi a livello mondiale sarebbero più di 4 milioni.
Prima gli australiani
A livello europeo e non solo, sta prendendo sempre più piede l’idea di nazionalismo “etnicamente puro”, fomentando sentimenti fortemente xenofobici (accentuati anche dalla situazione pandemica) che si manifestano con azioni e repressioni violente, come si vede anche dai fatti recenti dei migranti bloccati al confine polacco- bielorusso nel tentativo di fare ingresso nell’ “Europa dei diritti”.
In “Calma le onde” Dutch Nazari canta: «qualcuno strilla “Chiudete il porto” mentre suo figlio è in aeroporto», rappresentazione canora dell’ipocrisia dell’Occidente ricco e sfruttatore e della sua classe politica. In Europa abbiamo chi urla “Prima gli italiani”, chi ritiene necessario costruire o rinforzare muri, chi dispiega contingente militare per “difendersi” da chi scappa dalla guerra e dalla fame mentre dall’altra parte del globo, in Australia, qualcun altro, in qualche modo, ribadisce “Prima gli australiani”.
A proposito di quest’ultimo slogan, nella serie tv del 2020 targata Netflix“Stateless”, creata da Cate Blanchett, si raccontano le vicende umane vissute all’interno di un centro di detenzione di immigrati in Australia, tra cui l’emblematica storia vera di Cornelia Rau.
Quest’ultima, cittadina tedesca e residente permanente in Australia, era un’assistente di volo della compagnia aerea australiana Qantas airlines a cui era stato diagnosticato un disturbo bipolare seguito poi da schizofrenia. Da ciò ne derivarono le sue fughe sia dalla famiglia che dagli ospedali in cui era sottoposta a cure mediche. Nel 2004 arrivò nello stato del Queensland e venne arrestata accusata di aver viaggiato con passaporto rubato e di mentire circa la propria identità.
Stando alla legislazione del Migration Act del 1958, venne identificata come sospetto cittadino illegale, trasferita nel centro detentivo di Brisbane e poi di Baxter in cui vi soggiornavano richiedenti asilo provenienti dal Medio Oriente detenuti nella vana attesa di ottenere lo status di rifugiato. Per il Dipartimento dell’Immigrazione, Cornelia Rau era un’apolide, a cui non venivano riconosciuti quindi diritti e protezione legale. Accanto a questa storia vera, ce ne sono altre, ma più comuni, come quella di un rifugiato afghano che fa di tutto per salvare la sua famiglia dalla persecuzione nel suo Paese; o come quella di una giovane siriana, anche lei in attesa di un visto; quella di un uomo anziano che ogni giorno, con i suoi abiti più belli e una valigia, siede nel cortile del centro in attesa di essere accettato in Australia.
La storia di Cornelia Rau ha acceso i riflettori su numerosi casi di sospetta detenzione illegale da parte del Dipartimento per l’immigrazione e gli affari multiculturali e indigeni del governo australiano (DIMIA). L’Australian Human Rights Commission ha denunciato il progressivo peggioramento delle condizioni di detenzione dei migranti nel Paese. La storia di Cornelia, specie riguardo la detenzione illegale, è molto comune a livello globale e si possono trovare moltissimi casi simili in tutto il mondo. Episodi di detenzione illegale infatti, si verificano anche in quei Paesi che per anni si sono eretti ad esportatori della democrazia e dei diritti umani nel mondo.
E in Europa?
Nel Vecchio Continente, secondo gli ultimi dati UNHCR, si contano più di 535.000 persone apolidi. Il 24 settembre scorso, a Strasburgo si sono riuniti i rappresentanti dell’UNHCR e del Consiglio d’Europa per esaminare come gli stati Europei possano affrontare il problema dell’apolidia cercando di ridurne gli effetti. Durante la conferenza si è ribadito il diritto alla nazionalità sancito da numerosi trattati internazionali, il quale definisce quella che è l’identità sociale dei singoli soggetti ed è il nucleo fondante per l’acquisizione dei diritti fondamentali.
Durante la conferenza, la giovane attivista apolide Lynn Al- Khatib , tra le tante verità, ha affermato:
«The word stateless is associated with a lot of words ending in ‘less’. When you are stateless you feel worthless, futureless, faceless, helpless, hopeless, rootless, shoreless. You are on a rubber boat surrounded by water on a journey to nowhere. The only thing you have is your daydream of a shore that one day you might call home».
Una verità toccante che ci mette di fronte alle innumerevoli difficoltà dell’essere apolide, avere una propria identità, ma che nessuno certifica.
In Italia gli apolidi sono circa 3.000, per la maggior parte di etnia rom, seguiti da cittadini dell’ex URSS e da persone provenienti da Cuba, Palestina e Tibet. Tuttavia i dati Istat affermano che solo 550 persone abbiano ottenuto effettivamente lo status di apolide. Per ciò che riguarda l’atteggiamento giuridico in materia, l’Italia ha dato esecuzione alla Convenzione sullo status degli apolidi con la legge n. 306 del 1962 e nel 2015 il Parlamento italiano ha approvato la legge di adesione alla Convenzione sulla riduzione dell’apolidia.
Ciò che unisce le storie difficili di apolidi e profughi nel resto del mondo è la loro profonda marginalizzazione sociale, è il loro destino lasciato in balia della lunga e lenta burocrazia, è la necessità e la volontà di riscatto, è l’impotenza disarmante davanti a slogan e ad azioni che inneggiano all’odio ingiustificato.