Linguaggio inclusivo e schwa: chi genera la lingua?
Pochi giorni fa il comune di Castelfranco Emilia, nel modenese, è stato oggetto di fior di polemiche: se il sindaco Giovanni Gargano avesse affermato che la Terra in realtà fosse piatta e che l’allunaggio fosse solo un’invenzione complottista avrebbe suscitato meno scalpore. Invece, la sua unica (validissima) proposta è stata quella di adottare un linguaggio più “inclusivo”, utilizzando il simbolo fonetico schwa (ə) al posto dei plurali maschili universali.
Il sindaco lo ha annunciato dapprima su Facebook attraverso un post che recitava: «il 7 aprile moltǝ nostrǝ bambinǝ e ragazzǝ potranno tornare in classe!», chiarendo poi con un altro post che lo schwa sarebbe stato utilizzato nei successivi post del comune, sostituendo il maschile universale con la desinenza neutra. Come previsto, ecco le reazioni: «Il politicamente corretto ci seppellirà tutti»; «Abbiamo da sempre utilizzato il maschile universale, cosa cambia?»; «Queste non sono cose di cui dobbiamo occuparci, perché ci sono argomenti più urgenti da affrontare»; «Stiamo delirando, adesso dobbiamo cambiare tutto il linguaggio solo perché una desinenza viene modificata».
Obiezioni in parte condivise con il discorso del linguaggio sessista. Appurato che la questione sovrastante faccia rizzare i capelli ad una buona parte di persone, è necessario ricorrere ad una metafora musicale che possa rendere ben chiara la loro posizione: se il mondo ha ascoltato da sempre Massimo Ranieri, perché iniziare ad ascoltare i Black Pistol Fire?
Lo schwa (ə) e altre forme di inclusione
Lo schwa (ə)- spiega la Treccani- è “un suono neutro, non arrotondato, senza accento o tono, di scarsa sonorità” e, nonostante sia sconosciuto ai più data la sua assenza sulle tastiere di pc e smartphone, fa parte dell’Alfabeto Fonetico Internazionale. Lo schwa nel sistema fonetico è infatti un suono intermedio, che si pone esattamente a metà tra le vocali esistenti.
La sociolinguista Vera Gheno afferma che «rappresenta la vocale media per eccellenza» e il suo vantaggio è che, al contrario di altri simboli non alfabetici, «ha un suono davvero medio, non come la U che in alcuni dialetti denota un maschile». Inoltre, continua Gheno, «corrisponde al suono che si emette se non si deforma in alcun modo la bocca, a bocca rilassata». Lo ritroviamo sia nell’inglese moderno che in molti dialetti del centro Italia, primo fra tutti, quello napoletano (Es. Nàpulə).
Sempre Vera Gheno ci informa che in realtà l’Italia non è l’unico Paese al centro di questa politica di inclusione: nei Paesi anglofoni si discute sull’uso di they anche al singolare, al posto di he/she; in Svezia si discute sull’uso del pronome hen; in Brasile la scrittrice e critica letteraria Marcia Tiburi ha iniziato ad utilizzare il pronome todes, oltre a todas e todos.
Chi parla genera la lingua
Se sono i parlanti a fare la lingua, è doveroso tener conto di tutti i parlanti: tra questi rientra, per chi non lo sapesse, la comunità LGBTQ+ (che ricerca un modo per rendere il linguaggio più inclusivo) e le persone non-binarie, che non si identificano né nel genere maschile, né in quello femminile. Una delle soluzioni proposte, prima dello schwa, era quella di utilizzare l’asterisco al posto della desinenza, un’altra ancora quella di utilizzare il trattino basso. Il problema nasce quando si considera che asterisco e trattino basso non hanno un suono, e di conseguenza neanche una pronuncia: ecco perché lo schwa sembra essere una delle soluzioni migliori.
Il mondo di oggi è strutturato in maniera molto più complessa e, soprattutto le nuove generazioni, si rendono protagoniste sia da un punto di vista sociale che culturale di questa complessità, comprendendo il bisogno di adottare dei mezzi per facilitare la questione dell’inclusione. Difatti, quest’ultima, oltre ad essere linguistica è anche fortemente ideologica: la strada da percorrere sarà ancora lunga fin quando tutto il discorso dell’inclusione attraverso il linguaggio continuerà ad essere estremizzato all’ennesima potenza fino a renderlo ridicolo e fino a quando la parola “rispetto” non prenderà il posto della locuzione “politicamente corretto”.