Deglobalizzazione e pandemia: il mondo non sarà più lo stesso?
Sin dalla notte dei tempi, la storia dell’umanità è stata costellata da determinati eventi che hanno alterato per sempre il suo corso: l’attentato di Sarajevo, l’11 settembre o il crollo del muro di Berlino sono solo alcuni esempi in tal senso. Anche se apparentemente gli elementi che li accomunano possano sembrare pochi o nulli, è indubbio che ciascuno di essi abbia segnato una fondamentale frattura con il passato.
Ogni evento storico importante ha tradizionalmente caratterizzato un rinnovamento dell’assetto sociopolitico e culturale che fino a quel momento era stato una bussola per i governi e i cittadini di una porzione consistente del mondo, provocando trasformazioni spesso irreversibili. In particolare, la seconda metà del secolo scorso è stata investita da un incessante sviluppo tecnologico delle telecomunicazioni e di internet, con la conseguente accelerazione dei processi della globalizzazione. Questi cambiamenti sono stati accolti con profondo entusiasmo da parte di accademicə e politicə, specialmente alla fine del secolo scorso.
La pandemia da COVID-19 che ha colpito l’intero pianeta nel 2020 va dunque analizzata sia in ottica storica che globale: per quanto appaia piuttosto evidente come essa rientri tra quegli eventi cruciali evidenziati poc’anzi, è anche vero che si interseca con tutti quei fenomeni legati alla globalizzazione. Ci stiamo davvero avvicinando alla fine della globalizzazione, come moltə affermano o, al contrario, si tratta di visioni eccessivamente apocalittiche? Se è vero che il mondo è, nel bene o nel male, destinato a cambiare, quale sarà la portata di questi cambiamenti?
Tra globalizzazione e deglobalizzazione
Primariamente, va chiarito che fornire risposte univoche a domande di tale portata è un compito decisamente arduo, dacché sono innumerevoli le variabili di cui tener conto in un contesto così profondamente globalizzato e sfaccettato come il nostro. Inoltre, va tenuto a mente che fornire previsioni precise e affidabili non è fattibile, in quanto le conoscenze acquisite cambiano nel tempo e nello spazio, e non è da escludere che possano in realtà verificarsi eventi che non erano stati pronosticati.
Ciò che va compreso è che i processi associati alla globalizzazione sono parte della storia dell’umanità, in quanto i flussi migratori, il commercio o gli scambi interculturali ne hanno sempre plasmato il suo corso in un modo o nell’altro. L’elemento di novità principale delle ultime quattro decadi è però la velocità con cui essi si sono verificati e continuano, almeno in parte, a verificarsi. A ciò si aggiunge la risonanza assunta a livello mediale, e come molti di questi processi siano strumentalizzati dalle svariate forze politiche in campo. Basti pensare che, al netto delle agende politiche anti-immigrazioniste portate avanti da molteplici partiti populisti, i flussi migratori rimangono, a livello globale, piuttosto stabili nel tempo. Ciò che è cambiato è dunque la percezione che si ha del fenomeno, che si confà a tutte quelle narrazioni volte ad enfatizzare le presunte “invasioni” e a rimarcare una distinzione tra “noi” e “loro.”
A questo punto, la domanda che bisogna porsi è se sia corretto parlare di deglobalizzazione e, in caso di risposta affermativa, quali possano essere le implicazioni ad essa associata. Ebbene, un primo punto da toccare è che la globalizzazione si è evoluta nel tempo, così come il modo di approcciarsi ad essa. Negli anni Novanta vi era un predominante entusiasmo avallato da dati solidi che dimostravano come il mondo fosse destinato a diventare sempre più interconnesso. Ciò nonostante, con il tempo vi è stato un intiepidimento da parte di studiosə e politicə per diverse ragioni. In primis, si è compreso che ciò che è locale non ha mai perso del tutto il suo valore; al contrario, è sempre più cruciale difenderlo dal pericolo dell’omogeneizzazione. A questo proposito, l’attentato delle Torri Gemelle è il primo grande evento che ha portato ad un generale scetticismo nei confronti dei fenomeni associati alla globalizzazione e alla conseguente difesa dei propri confini. Specialmente i Paesi occidentali sono stati protagonisti di questo fenomeno, imponendo politiche anti-immigrazioniste. Congiuntamente alle aspre critiche nei confronti delle politiche multiculturaliste, queste ultime sono state accusate di favorire segregazionismo e la successiva radicalizzazione delle comunità musulmane, capri espiatori di tale propaganda più o meno apertamente xenofoba.
In secundis, la Grande Recessione del 2008 ha portato a una generale insoddisfazione nei confronti della globalizzazione, specialmente nei paesi maggiormente colpiti, e ha posto le basi per il contesto attuale e futuro sotto molteplici aspetti.
Ripercorrere questi episodi è essenziale per comprendere la realtà odierna e da dove derivi l’idea della “deglobalizzazione”. La pandemia da COVID-19, scoppiata ormai quasi due anni fa, ha trovato la propria origine in un contesto sociopolitico in cui le tensioni tra le maggiori potenze mondiali sono più forti che mai. In Occidente, gli incontri interculturali hanno creato situazioni tutt’altro che semplici, come l’aumento di sinofobia registratosi nei primi mesi del 2020. Dunque, l’idea generale da parte di alcuntə studiostə è che la combinazione complessiva di tali fattori abbia portato alla morte della globalizzazione o, perlomeno, la sua fine nel modo in cui l’abbiamo concepita sinora.
In buona sostanza, i fautori della deglobalizzazione affermano che la pandemia avrebbe amplificato e velocizzato una serie di processi sociali e demografici già in atto da molto tempo che, pur interessando trasversalmente ogni area del mondo, emergono con maggior enfasi nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo. Sebbene finora l’invecchiamento delle popolazioni abbia riguardato prevalentemente le economie più avanzate che hanno completato la transizione demografica, dai dati emerge infatti che, al contrario, questo fenomeno investe oggi tutti i continenti (evidente specialmente in Cina). La principale e più immediata conseguenza di tali cambiamenti è che i processi produttivi divengono progressivamente meno rilevanti per l’economia mondiale, per due motivi. Il primo è che le famiglie più giovani sono quelle maggiormente interessate dall’acquisto di beni e sono destinate a divenire la minoranza. Il secondo è l’immaterialità verso cui il mondo si sta muovendo: è sufficiente pensare che all’acquisto di una libreria musicale si opti sempre più frequentemente per un servizio in streaming tramite il quale, potenzialmente, si potrebbe possedere l’intera produzione musicale mondiale.
Un ulteriore aspetto che va necessariamente preso in analisi è l’annosa questione dell’erosione del ruolo dello stato-nazione che, secondo alcunə, è una diretta conseguenza delle prime, entusiaste, fasi della globalizzazione, caratterizzate da una profonda integrazione e da un abbattimento delle barriere per facilitare lo scambio di merci. I Paesi, per controbilanciare gli effetti di tali misure, hanno così adottato misure protezionistiche, allontanandosi dalle politiche neo-liberaliste dello scorso secolo che depotenziavano il ruolo dello Stato e ponevano il libero mercato in una posizione predominante e privilegiata.
Ad esempio, le guerre commerciali tra Cina e Stati Uniti, non sono che uno strumento volto a rimarcare, specialmente nel caso dei secondi, la propria supremazia, messa progressivamente in discussione dall’emergere di nuovi e sempre più influenti attori.
Infine, stando alla Banca Mondiale, l’espansione delle global supply chain si è arrestata proprio con la Grande Recessione, dimostrando ulteriormente quanto il fenomeno della deglobalizzazione abbia radici ben più profonde, che vanno ricercate in eventi i cui effetti continuano a propagarsi anche dopo oltre una decade. In relazione alla pandemia e alla globalizzazione, anche alcunə politicə hanno evidenziato la crucialità della fase storica che stiamo attualmente attraversando.
Il coronavirus cambierà la natura della globalizzazione con la quale abbiamo convissuto negli ultimi quarant’anni
Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica francese
La fine della globalizzazione?
Come detto in apertura, appare chiaro che sia la Grande Recessione che la pandemia abbiano portato e porteranno a cambiamenti drastici a livello globale; è di conseguenza altrettanto evidente che gli effetti di entrambi gli eventi storici siano legati, e che hanno provocato e/o provocheranno trasformazioni irreversibili sul piano globale.
Tuttavia, secondo alcuntə studiostə avrebbe più senso parlare di slowbalization, ovvero non un mondo deglobalizzato, quanto piuttosto un rallentamento generalizzato dell’integrazione globale. Anche in questo caso, il motore principale sarebbe la Grande Recessione, con la pandemia a fungere da carburante.
Nel complesso, la letteratura è concorde nell’affermare che la globalizzazione, seppur in misura diversa, è destinata a trasformarsi ancora una volta in virtù delle mutate condizioni sociopolitiche. A tal riguardo, non ci si può esimere dal considerare come il mutare di tali condizioni sia strettamente connesso non solo con quanto sottolineato sinora, ma anche con il modo di relazionarsi con gli spazi, drasticamente trasformatosi negli ultimi due anni. In particolare, ciò riguarda l’aumento esponenziale del telelavoro (erroneamente confuso con lo smartworking che, lo sottolineiamo, è un’altra cosa), il mondo del lavoro nel suo complesso e con la gestione del tempo. Emerge, infatti, un’esigenza generalizzata e sempre più manifesta di un rallentamento che non interessa unicamente la globalizzazione, ma anche i cittadinə, come dimostra il crescente fenomeno del downshifting, che porta sempre più persone a lasciare la propria occupazione a causa dei ritmi insostenibili e spesso deumanizzanti. La crescente attenzione alla salute mentale, sinora ignorata (e ancora oggi scarsamente considerata nel nostro Paese), può essere letta in questo modo: maggior attenzione a ritmi sostenibili e al benessere psicofisico non solo su scala globale, ma anche sul piano individuale.
In conclusione, decretare o meno la morte della globalizzazione è un passo decisamente azzardato per varie ragioni. Per quanto non abbiamo ancora dati a sufficienza che dimostrino che andremo nella direzione di una deglobalizzazione o di una slowbalization, il mondo sta indubbiamente andando incontro a trasformazioni mastodontiche che non è possibile ignorare. La loro origine risale tuttavia a ben prima dello scoppio della pandemia, la quale ha accelerato ciò che stava già sedimentandosi tanto a livello politico ed economico (vedasi il fiorire dei partiti populisti e le politiche protezionistiche), quanto individuale (le lotte per orari più equi e il crescente interesse per la giustizia sociale). Alla luce di quanto asserito sin qui, dunque, la correlazione tra Covid-19 e globalizzazione risulta strettissima, ed è anche per tale ragione che disquisire su un ipotetico ritorno alla “normalità pre-pandemia” si rivela inadeguato su più fronti: la pandemia, così come ogni evento storico di grande rilievo, ha portato con sé un nuovo mondo incompatibile con quello che abbiamo lasciato nel 2019. Lo stesso vale per la globalizzazione.
Editing e fact checking a cura di Alice Spada