Cina e Taiwan, la resa dei conti è vicina?
Nell’arco di tempo dell’ultimo decennio, la Cina è diventata una dei principali attori nello scacchiere mondiale grazie al suo espansionismo economico e commerciale ma si è anche dimostrata capace di agire con forza nella soppressione dei principi democratici. Sul versante interno, infatti, il desiderio di crescita di Pechino è andato di pari passo con l’implementazione di un modello di politica interna basata sulla distruzione del dissenso, sparizioni, arresti indiscriminati, pena di morte, repressione violenta delle minoranze, annullamento della libertà di informazione, di pensiero e di religione.
Una delle questioni politiche più delicate che la Cina si è trovata a gestire negli ultimi anni è la complessa e problematica situazione dell’isola di Taiwan. Questa controversia è causa di non poche tensioni tra Pechino e Taipei, e non solo.
Come nasce il conflitto tra Cina e Taiwan
La tensione diplomatica tra Pechino e Taipei risale al periodo successivo alla fine della seconda guerra mondiale.
Il conflitto civile consumatosi in Cina tra 1946 e 1949 si era concluso con la vittoria delle forze comuniste di Mao Zedong sul governo del Partito Nazionalista Cinese (o Guomindang), i cui membri, incalzati dall’armata rossa maoista, avevano riparato sull’isola di Taiwan nell’attesa di riassumere il controllo di tutto il Paese. In questo territorio, il governo nazionalista aveva intanto portato avanti il progetto di ricreare la prima repubblica cinese ovvero la Repubblica di Cina (come si definisce oggi Taiwan), che era stata formalmente istituita a Pechino nel 1911 dopo il crollo dell’impero.
È quindi da allora che la Cina considera Taiwan come una provincia ribelle, che necessita di essere riportata all’ordine sotto l’influenza della stessa Pechino. La diatriba ha ben presto assunto dimensioni internazionali, quando Stati Uniti ed Unione Sovietica si sono schierate a sostegno delle due fazioni.
Inizialmente, il regime nazionalista di Taipei si considerava come il legittimo rappresentante di tutta la Cina. Forte del sostegno di Washington, il Guomindang chiese ed ottenne il suo seggio alle Nazioni Unite in veste di legittimo rappresentante del popolo cinese. I nazionalisti sostenevano inoltre che Pechino non avesse l’effettivo controllo sul territorio e non potesse contare sul sostegno della popolazione. Al contrario, la Cina di Mao Zedong, con l’appoggio dall’Unione Sovietica e degli altri Paesi socialisti, riteneva che il governo di Taipei dovesse essere escluso dell’organizzazione del Paese giacché non esercitava alcun controllo sul territorio cinese continentale. Pechino sosteneva quindi che era la Repubblica Popolare Cinese a rappresentare la maggior parte della popolazione cinese.
A dare una svolta alla questione fu una nuova configurazione dello scenario geopolitico mondiale, caratterizzata da un crescente numero di Stati del “Terzo Mondo” (anche detti “non allineati”) che parteggiavano per Pechino. Nel 1971, la RPC entrò a far parte ufficialmente dell’ONU prendendo possesso del seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza in sostituzione dei rappresentanti della Repubblica di Cina. Tale evento contribuì a rendere la posizione di Taipei sempre più precaria.
Sempre agli inizi degli anni ’70, la rottura dei rapporti tra Pechino e Mosca fece della RPC un potenziale alleato della politica di contenimento anti-sovietica in Asia, spingendo così l’amministrazione statunitense ad una progressiva apertura verso Pechino. Questo passaggio culminò nella storica visita effettuata dal presidente statunitense Nixon in Cina nel 1972 e alla sottoscrizione congiunta del “comunicato di Shanghai”. Attraverso questo documento, si dichiarava l’appartenenza di Taiwan alla Cina, che riceveva di fatto anche il riconoscimento del governo della Cina Popolare da parte degli Stati Uniti.
In conclusione, per Pechino, la “Repubblica Popolare Cinese” rappresenta “l’unica Cina” e la sua proclamazione e riconoscimento ufficiale ha posto fine all’esistenza della “Repubblica di Cina”, la quale attualmente costituisce agli occhi di Pechino solo la 23esima provincia cinese e non possiede alcun titolo per agire come un’entità statale sulla scena internazionale (affermazioni che sono ovviamente respinte da Taipei).
La situazione attuale
In relazione allo sviluppo della questione taiwanese nel corso degli ultimi anni, il presidente cinese Xi Jinping ha ipotizzato la possibile applicazione anche all’isola del principio “un Paese, due sistemi”, attualmente vigente per Hong Kong e Macao. Questo meccanismo permette loro di mantenere ufficialmente in vigore alcune concessioni e libertà democratiche diverse da quelle della Cina comunista. Sebbene venga proposta come una delle pochissime alternative- escludendo ovviamente la possibilità di un’invasione militare– la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen ha dichiarato che l’isola non accetterà mai un quadro politico con continue ingerenze interne da parte di Pechino. Come per Hong Kong, l’influenza cinese ha portato a una sempre maggiore perdita di libertà e violazioni di diritti umani.
A tale proposito, è piuttosto recente la notizia che ha visto la Cina esibirsi in una dimostrazione di forza dispiegando circa 156 aerei da combattimento che hanno sorvolato a più riprese lo spazio aereo di Taiwan. Questo evento sostiene le reali intenzioni di riunificazione nei confronti dell’isola, anche in riferimento all’azione degli Stati Uniti, principali difensori della fragile indipendenza di Taiwan.
La situazione alquanto tesa tra le due controparti è stata apostrofata dal ministro della Difesa taiwanese, Chiu Kuo-cheng, come «una delle peggiori tensioni militari degli ultimi 40 anni». Come è stato ribadito dalla stessa presidente Tsai Ing-wen in un editoriale comparso sulla rivista statunitense Foreign Affairs: «Il rifiuto di Taiwan di arrendersi, il suo persistente vincolo con la democrazia e il suo impegno ad agire come stakeholder responsabile (anche quando la sua esclusione dalle istituzioni internazionali lo ha reso difficile) stanno ora spronando il resto del mondo a rivalutare il suo valore come democrazia liberale in prima linea in un nuovo scontro tra ideologie». Questa dichiarazione evidenzia come, se Taiwan dovesse cadere, la situazione di pace già precaria nella regione potrebbe portare a conseguenze catastrofiche per il sistema delle alleanze democratiche.
Sebbene gli Stati Uniti giochino sempre lungo il confine dell’ambiguità e non abbiano dichiarato ufficialmente che interverranno in caso di attacco militare da parte della Cina, si sono immediatamente schierati con Taiwan. Come ha enfatizzato il portavoce del Pentagono John F. Kirby: «Esortiamo Pechino a onorare il suo impegno per la risoluzione pacifica delle differenze nello Stretto». A sostegno di questa posizione va letta anche l’esclusione della Cina e l’invito di Taiwan al summit per la democrazia voluto dal presidente Joe Biden agli inizi di dicembre.
Concordi con gli USA sono anche Australia e Gran Bretagna, che proprio il mese scorso hanno raggiunto un accordo per l‘acquisto di sottomarini a propulsione nucleare al fine di sorvegliare la regione e prevenire una possibile escalation. Al contempo, la Commissione Europea si è limitata a rimandare semplicemente il nuovo accordo di collaborazione economico e commerciale con Taiwan.
La partita che si gioca al momento tra Stati Uniti e Cina, non senza ripercussioni economiche, ha raggiunto livelli allarmanti, dove in ballo ormai non c’è più solo il futuro e l’indipendenza di Taiwan ma la pace e la stabilità di tutto il mondo.
Editing e fact checking a cura di Alice Spada
Consigli di lettura Pompili, G. (2021). Sotto lo stesso cielo: Giappone, Taiwan e Corea, I Rivali di Pechino Che Stanno facendo grande l'Asia. Mondadori. Brown, K. & Tzu-Hui, K. W. (2021). The trouble with Taiwan: History, the United States and a rising China. Zed Books.