Ipocrisia e abilismo: l’altra faccia della COP26
La COP26 si accinge a concludersi in quel di Glasgow, ma non senza prima evidenziare alcune preoccupanti criticità. Come già esposto nel recente articolo dedicato al summit, le aspettative nei confronti della Conferenza rischiavano di essere disattese principalmente a causa della pericolosa e profonda divisione politica degli Stati, che ancora una volta hanno dimostrato la loro incapacità nel rispondere adeguatamente alle sfide globali. Greta Thunberg, famosa attivista per il clima, insieme a diversi gruppi ambientalisti, ha definito la COP26 un “festival del greenwashing”, sottolineando come le azioni dei leader politici siano ancora del tutto insufficienti per combattere la crisi climatica.
Ma non basta: ad emerge è che, al netto di slogan e messaggi volti all’inclusività su più fronti, la COP26 rischia di rappresentare una sconfitta non solo per il nostro futuro su questo pianeta. Infatti, se ci limitiamo al presente, lo è già indubbiamente stata per quel che concerne la salvaguardia dei diritti delle persone disabili.
Un’organizzazione abilista…
Nello specifico, protagonista di un infausto episodio è stata la ministra israeliana Karine Elharrar, alla quale è stata negata la partecipazione a uno degli eventi politici internazionali più cruciali e determinanti degli ultimi anni a causa delle barriere architettoniche presenti nello Scottish Event Campus, la struttura che ospita la COP26. A nulla sono serviti i tentativi – durati circa due ore – di far accedere la politica all’edificio, ritrovandosi dunque costretta a far ritorno presso il suo albergo e rimanendo, nei fatti, esclusa da un dibattito che riguarda tuttə noi.
La situazione, nel complesso, appare decisamente problematica su più fronti, ed esaurirne in poche righe la complessità costituisce una sfida tutt’altro che semplice, soprattutto se a redigere l’articolo in questione è una persona non-disabile esente da tali discriminazioni.
In primis, al fine di elaborare un’analisi quanto più completa possibile occorre mettere a fuoco le reazioni degli altri leader mondiali, che non sono tardate ad arrivare dato lo scalpore mediatico che ha destato l’evento in questione. Se da un lato non sono mancate le scuse del Primo Ministro Boris Johnson– in seguito freddamente accolte da Elharrar-; dall’altro, il segretario di Stato inglese per l’ambiente, l’alimentazione e l’agricoltura George Eustice ha non solo dimostrato le sue scarse abilità diplomatiche, ma anche la sua mancanza di empatia e il suo abilismo. Egli, infatti, ha accusato la delegazione israeliana di non aver fatto presente la particolare “esigenza” della ministra, tentando di autoassolversi e di addossare la responsabilità unicamente sulla vittima, costretta dunque ad una seconda violenza.
Ciò che sarebbe dovuto accadere in tale circostanza è che Israele comunicasse la particolare esigenza per la loro ministra. Qualcosa è sicuramente andato storto, e gli organizzatori non hanno preso i provvedimenti adeguati a rendere accessibile l’ingresso che intendeva utilizzare la ministra.
George Eustice
A dispetto di tali parole, un portavoce dell’ambasciata israeliana a Londra ha dichiarato che nelle scorse settimane era effettivamente giunta una comunicazione da parte degli organi competenti, rendendo ancor più inaccettabili le parole di Eustice. Le reazioni non sono chiaramente mancate, con pesanti critiche da parte delle associazioni e degli attivistə, che hanno unanimemente condannato gli organizzatori, il cui comportamento è stato definito inaccettabile.
«È inaccettabile che gli organizzatori non abbiano reso la sede della COP26 accessibile alle persone disabili. Nessuno dovrebbe essere escluso da un evento indirizzato verso uno dei maggiori problemi del nostro tempo”. Queste le parole di Alison Kerry, responsabile della comunicazione presso Scope, organizzazione che si batte per la salvaguardia e il rispetto dei diritti delle persone disabili.
Nel complesso emerge dunque la totale inadeguatezza tanto da parte degli organizzatori quanto dai leader politici: questi ultimi sono chiamati a rimuovere tutti quei muri che possano impedire l’autodeterminazione dell’individuo, che tuttavia si ritrova nel concreto a doversi scontrare quotidianamente con un mondo che non è necessariamente plasmato in risposta alle sue esigenze.
… un mondo abilista?
Le dichiarazioni che devono colpire maggiormente, e su cui occorre soffermarsi con una certa preoccupazione, sono senza dubbio alcuno quelle di Eustice, le quali mettono in chiaro quanto – ancora una volta – l’adattamento debba venire da parte delle minoranze, sulle quali ricadono in toto le responsabilità degli episodi discriminatori. Dalle sue parole emerge quanto le persone disabili siano talmente invisibili da non essere minimamente considerate, oltre al fatto che, ancora oggi, vengano definite “particolari” le esigenze di una categoria di persone che ha anche un certo peso demografico.
Stando a un’analisi compiuta dalla Banca mondiale, infatti, si stima che le persone disabili rappresentino il 15% delle persone nel mondo, ovvero circa un miliardo di individui: il numero non è per niente trascurabile, specialmente in fase di pianificazione politica e urbanistica. Ognuna di queste persone si relaziona quotidianamente con un mondo a loro ostile e in cui la rimozione delle barriere architettoniche rientra ancora tra le “particolari esigenze” che le persone abili sono, solamente in determinate circostanze e solo se preventivamente avvisati (il che non è comunque una garanzia, come in questo caso), tenuti a rimuovere, seppur momentaneamente. In più, è ancora inconcepibile l’idea che una donna disabile possa ricoprire cariche di potere, le quali rimangono ancora fortemente ancorate nelle mani di una categoria ben delineata di individui, con l’effetto di rendere tali eventi concretamente disallineati dai valori di cui si fanno portavoce.
Quelle con cui devono interfacciarsi le persone disabili sono non solo le barriere architettoniche, ma anche quelle invisibili. Entrambe, tuttavia, sono strettamente connesse: le barriere architettoniche esistono affinché le persone disabili stiano al proprio posto, con il grave effetto di creare disuguaglianze e segregazione tanto riguardo all’istruzione, quanto al mondo del lavoro. Tale discorso richiederebbe una disamina più approfondita circa il concetto di meritocrazia e di quanto questa sia in larga parte un concetto ancora ben lontano da una società caratterizzata da discriminazioni e disuguaglianze.
Del resto, non è un caso che tra i partecipanti a un summit di tale portata abbia presenziato unicamente una ministra disabile. Ciò, infine, si lega profondamente alle disuguaglianze sistemiche, in quanto le persone disabili vengono di fatto discriminate su più livelli sin dalla tenera età, come nel caso del Sud Africa, in cui si stima che almeno 500mila bambini disabili non siano mai andati a scuola. A tal proposito, si parla di una cosiddetta apartheid della disabilità, che agisce ora sul piano fisico, ora su quello linguistico, ora su quello sociale ed educativo.
Come già evidenziato in occasione delle Paralimpiadi Tokyo 2020, occorre ridimensionare l’impatto sul lungo termine di determinati eventi fino a quando non si deciderà di attuare un cambiamento reale e profondo che vada al di là della mera (e in certi casi circostanziale) celebrazione dei corpi considerati non conformi. Finché non seguirà un’attenta riflessione sul rimodellamento delle città e, più in generale, degli spazi fisici, l’abilismo continuerà ad avere la meglio su chi non è in grado di accedere a taluni spazi, e di conseguenza episodi simili continueranno a perpetuarsi, indipendentemente dallo status sociale della vittima.
Cosa deve cambiare?
Ragionando in ottica ancor più ampia, fino a quando gli spazi fisici non saranno accessibili da parte di una data popolazione, essa sarà incapace di far sentire la propria voce e di esprimere il proprio disappunto nei confronti delle istituzioni, che continueranno dunque ad essere sorde alle loro esigenze e ingigantendo il muro che li separa.
In questo contesto sono i social network a divenire un nuovo spazio virtuale in cui dar voce alle proprie istanze e grazie ai quali sono in moltə ad aver iniziato a svolgere un lavoro di divulgazione ammirevole e in grado di aggirare le barriere architettoniche presenti in ogni città del mondo. Vale la pena interrogarsi su quanto un’azione simile possa realmente fare la differenza sul lungo termine, o se, al contrario, avvicinarsi a tali tematiche tramite i social media non rischi in qualche modo di creare una “bolla felice” in cui vige un rispetto e un’attenzione che, purtroppo, fa fatica ad arrivare anche a chi non dispone ora degli strumenti tecnologici, ora di quelli culturali per recepire e far proprie tali istanze. Con ciò, chiaramente, non vi è alcun intento di sminuire il lavoro preziosissimo che le persone disabili impegnate nell’attivismo e nella divulgazione fanno online, quanto piuttosto di ragionare su quanto la voce di queste persone venga spezzata proprio dagli spazi urbani e fisici ai quali spesso non sono in grado di accedere.
L’attivismo online è stato in tal senso fondamentale, ed è chiaro che grazie ad esso una frangia di popolazione si sia avvicinata a situazioni e vissuti diametralmente opposti ai propri, mettendo in discussione i propri modelli di pensiero e quello che è il proprio modo di relazionarsi con il mondo circostante. Va da sé che, purtroppo, in taluni casi sono proprio gli spazi online a silenziare la voce di questə attivistə, che devono scontrarsi con le segnalazioni in massa da parte di gruppi organizzati e con le politiche dei social tutt’altro che trasparenti ed eque.
In tale contesto, dunque, si ha per certi versi l’impressione che non vi sia spazio alcuno per i corpi e le voci di chi è sistematicamente oppresso dalle iniquità della società ed è imperativo che siano, ancora una volta, le persone abili e abiliste a creare spazi sicuri e in grado di accogliere chiunque. Sono molteplici i dibattiti circa il legame – per molte persone cruciale – tra attivismo e piazze, ma ragionare in questi termini mette in luce unicamente la profonda visione abilista di chi preme verso questa direzione. Ebbene, il caso della ministra Elharrar non è che il più plateale, ma che deve portare in primis i leader che si sono scusati a dimostrare la loro onestà concretamente. Le scuse di Johnson appariranno sterili ed empie fino a quando ad esse non seguirà un reale impegno di rendere le città inglesi accessibili a chiunque voglia percorrere quelle strade.
Un’ultima nota sulla quale vale la pena di soffermarsi è che, come sottolineato dal report della Banca Mondiale precedentemente menzionato, le disabilità sono maggiormente diffuse nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo che, come ben sappiamo, sono anche quei Paesi che soffrono maggiormente gli effetti dei cambiamenti climatici. Nel concreto, insomma, appare chiaro che la COP26 di Glasgow sia un fallimento sotto tutti i punti di vista: come ben sottolinea Greta Thunberg, non è possibile risolvere la crisi climatica con gli stessi strumenti che l’hanno provocata. Inoltre, agire unicamente tramite slogan appare ancor più miope, considerando che la lotta alla crisi climatica deve essere affiancata non solo a una totale ristrutturazione degli assetti politici ed economici, ma anche a una nuova centralità da attribuire alle minoranze.
La vicenda di Karine Elharrar deve fare da monito soprattutto a noi persone non-disabili, e non deve in alcun modo cadere nel dimenticatoio. La sua storia, la sua sofferenza e il suo imbarazzo non sono che la rappresentazione delle sfide quotidiane che lei, così come milioni di persone, affrontano quotidianamente, con la differenza che la maggior parte vive in condizioni di indigenza e povertà.
Editing e fact checking a cura di Claudio Annibali